Le 11 regole di Michael Moore per un buon documentario

Le 11 regole di Michael Moore per un buon documentario

Poco amato in patria (ma i suoi film sono un grande successo), criticato all’estero (ma i suoi film restano comunque un grande successo) Michael Moore ha sviluppato un modo, molto personale, di creare documentari di denuncia. Racconta storie vere, fornisce informazioni, fatti e – soprattutto – interpretazioni, che sono poi la parte più controversa delle sue opere. In Sicko aveva fatto le pulci all’industria farmaceutica e i suoi legami con la politica (e dentro c’era anche la neocandidata alla presidenza degli Stati Uniti, cioè Hillary Clinton), in Fahrenheit 9/11 aveva messo alla berlina la strategia bellica del governo Bush, denunciando gli abusi sulla libertà dei cittadini con il Patriot Act.

Insomma, Moore è uno che di documentari ne capisce. Per questo motivo sembra utile dare un’occhiata ai suoi 11 comandamenti per fare un buon film. Sono estratti da un discorso (questo), a volte si ripetono, ma è per giovare. Se non volete fare un’impepata di cozze, sono necessari:

Prima regola per un buon documentario: non fare un documentario, ma un film
Lo si fa per rispetto del pubblico. È venerdì sera, hanno lavorato tutta la settimana, vogliono solo essere presi, rapiti e portati da qualche parte. Non importa se piangeranno, rideranno, si vedranno costretti a riflettere. Non vogliono però subire una lezione, non vogliono vedere ditini alzati. Vogliono divertirsti, nel senso migliore del termine.

Non dire cose che il pubblico sa già
Bisogna trovare storie, temi, idee che non siano vecchi, già noti, già detti. Perché uno dovrebbe vederlo, altrimenti?

Il documentario di oggi sembra una lezione universitaria. Con un modo universitario di raccontare una storia
Ecco, questo non va bene. Deve finire. Si deve trovare un modo nuovo e diverso per raccontare una storia, anche in modo creativo, anche andando controcorrente.

Il documentario deve essere qualcosa di croccante, non una medicina
È un po’ la stessa cosa: non didascalico, non noioso, non “necessario”. Deve essere sempre una scelta, consapevole o meno, del pubblico.

La sinistra è noiosa
Essere di sinistra significa avere poco senso dell’umorismo? Forse. Ma non è sempre stato così. Si può divertire e raccontare storie da un’angolatura ideologica precisa. È un compito necessario.

Dire i nomi
I cattivi, nei documentari, sono sempre sullo sfondo. Si dice, non si dice, si sottintende. Perché? Se si hanno cose da dire e responsabili da nominare, vanno nominati: aziende, persone, dinastie. Che problema c’è? Le persone capiscono meglio.

Il tocco personale
Non significa apparire nel film. Ma dargli una voce personale, con riflessioni e pensieri propri, anche ingenui. Il pubblico apprezza.

Mostra le telecamere degli altri
È fondamentale spiegare al pubblico come e perché i media mainstream non parlano di quello che c’è nel documentario. Quali sono gli interessi, le timidezze degli altri? Scoprili e mettili in luce. Il pubblico ne sarà grato.

Inquadra sempre le persone che nn sono d’accordo
Un coro di assenso che ripete sempre le stesse cose non va da nessuna parte. Si impara molto di più inquadrando le persone che non sono dalla stessa parte, che raccontano e spiegano come vanno le cose. E, nel più dei casi, rivelano informazioni e particolari importanti.

Meno è meglio
È una vecchia regola giornalistica. Taglia, taglia. Rendi tutto più breve. Meno parole, meno scene, meno tutto.

Il suono conta più dell’immagine
Vale nei film, vale nei documentari. Non si può fare un buon film/documentario senza una colonna sonora intelligente. Per questo si deve investire molto anche lì.

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