Per quali ragioni un Paese in pace, appena uscito da una guerra che gli aveva vuotato le casse e i magazzini, afflitto da una crisi finanziaria, con un Parlamento a larghissima maggioranza contrario all’intervento in guerra, così come l’opinione pubblica; per quali ragioni questo Paese, l’Italia, si trovò a partecipare ad una guerra europea di enorme portata militare? Una guerra in corso già da quasi un anno, per di più, in cui si potevano constatare sul fronte francese e su quello polacco già un milione di morti tra i contendenti, nuove e terribili armi a disposizione delle milizie, spese enormi per il mantenimento delle operazioni.
Alla base di questa scelta c’è il problema storico e politico che caratterizza non solo l’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, ma anche le seguenti involuzioni della politica italiana dopo la guerra: la scomparsa dello spirito liberale e risorgimentale, il Fascismo, la distruzione morale e materiale del Paese nella Seconda Guerra Mondiale, la rinascita sotto altre vesti che più poco avevano a che fare con il Risorgimento nazionale, la lunga e quasi inarrestabile decadenza politica e culturale a cui le nostre generazioni hanno assistito. Tutto questo ha inizio con la forzatura, qualcuno dice “colpo di stato”, con cui l’Italia fu portata a partecipare alla Grande Guerra.
All’inizio, subito dopo lo scoppio della guerra nell’agosto del ’14, solo partiti marginali e poco rappresentativi, come i nazionalisti e i repubblicani, chiesero l’intervento, peraltro su fronti opposti, poiché i nazionalisti erano per confermare la Triplice Alleanza, mentre i repubblicani per la conquista dei territori irredenti in Austria. Poi, per strade sottotraccia, l’interventismo si sviluppò ed ebbe in ottobre una forte sua affermazione con la nascita del Popolo d’Italia e la secessione di Mussolini dai socialisti, l’azione provocatrice e goliardica dei futuristi, l’aggregazione a questo fronte di formazioni di estrema destra come i nazionalisti e di estrema sinistra come una parte degli anarchici e i sindacalisti di Filippo Corridoni.
Pochi ufficiali non potevano tenere a bada molti proletari armati a cui la divisa non avrebbe tolto lo spirito rivoluzionario, pensava giustamente Lenin
Già, i rivoluzionari. Il motto era “Guerra o rivoluzione!” e voleva dire che queste forze politiche, espressione di una cultura soreliana e vitalistica, pensavano che attraverso la guerra sarebbe potuta nascere una rivolta. Anche nel suo esilio svizzero, Lenin aveva la stessa idea, ricordava il tentativo rivoluzionario di dieci anni prima durante la guerra russo giapponese e la mancanza nel popolo insorgente di armi contro la polizia e i cosacchi, ben più organizzati. La rivoluzione romantica e ottocentesca era finita, il popolo disarmato non era più in grado, con la sola sua sollevazione, di vincere. Le forze dell’ordine avevano ormai un armamento tale che non poteva essere superato dalla buona volontà dei giovani delle barricate ma, se questi giovani fossero stati chiamati alle armi, e avessero tutti in mano un fucile, il discorso sarebbe stato assai diverso. Pochi ufficiali non potevano tenere a bada molti proletari armati a cui la divisa non aveva tolto lo spirito rivoluzionario, pensava giustamente Lenin.
In Italia, la commistione di partiti di destra e la partecipazione di forze borghesi, ancorché giovanili, toglieva a questo discorso il rigore bolscevico che esso aveva, ma, come si vedrà nel corso della guerra, non toglieva necessariamente a chi era armato, e si sentiva padrone della situazione, la volontà di prendere il potere e di cambiare le cose. Fare cioè una rivoluzione ideologicamente indistinta, collegata solo con la violenza del ribaltamento delle classi dirigenti: oggi la chiameremmo “rottamazione”.
Che questo non piacesse ai governanti, e anzi in qualche modo li impaurisse, era chiaro anche dal rigore con cui le forze dell’ordine e i militari reprimevano, per lo meno fino al dicembre 1914, le manifestazioni interventiste. Ma il discorso non si fermava qui perché forze sociali precise avevano interesse a partecipare alla guerra a partire dai cosiddetti ambienti militari. Soprattutto gli industriali, che speravano con la guerra di potere avere finalmente una spinta energica per le loro produzioni, come stava avvenendo in Francia, in Germania e in Inghilterra. Perfino il Belgio sconfitto e occupato sviluppava, sotto il controllo dei tedeschi, una forte attività industriale. Ricordiamo che in quella guerra non c’era ancora un’aviazione così sviluppata da poter radere al suolo intere comunità industriali, quindi passato il fronte, allontanatasi l’artiglieria, tutto riprendeva a grande ritmo, pur sotto altri padroni.
il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari
E poi c’erano i giornali. Abbiamo detto che il Secolo d’Italia di Mussolini era stato il pungolo dell’interventismo che aveva avuto da subito un grande successo editoriale, ma il vero giornale interventista era il Corriere della Sera, ben più diffuso in tutta Italia e modernamente organizzato. Luigi Albertini era il suo attivissimo direttore, intelligente, molto capace nelle relazioni sociali, talvolta pettegolo, non sempre attendibile, ma efficace. Molto efficace particolarmente nel coagulare gli interessi degli industriali e collegarli con quelli del Re e della Corte e dei militari. L’Ansaldo di Genova era l’industria più grossa nel settore degli armamenti, ma lo sviluppo che la guerra avrebbe dato all’industria non si limitava ai soli armamenti. La più grande impresa italiana dell’epoca era la Pirelli dove i due fratelli Alberto e Piero avevano ereditato la gestione dal padre Giovanbattista. Alberto era colto, intelligente, volitivo, interventista e, probabilmente come il padre, massone. La massoneria francese, seguita a ruota da quella inglese, che agiva particolarmente su Sidney Sonnino, si dava un gran da fare, soprattutto a Milano dove interventista era diventato anche Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace oltre che Gran Maestro del Grande Oriente.
Fu allora e solo allora, quando gli interventisti rivoluzionari erano quasi sconfitti, che questo movimento di interessi, coinvolto re Vittorio Emanuele, prese in mano la situazione e, attraverso l’ambasciatore d’Italia marchese Guglielmo Imperiali, si iniziarono nel mese di febbraio del 1915 le trattative che portarono alla firma del cosiddetto Patto di Londra. Patto frettoloso, fatto in forza di una valutazione, condivisa in Inghilterra solo da Churchill e in Francia da pochi altri, che doveva, attraverso lo sbarco nella penisola di Gallipoli delle forze inglesi e in Grecia di una divisione francese, facilmente far risalire i Balcani alle truppe Alleate. Intanto le divisioni russe avanzavano, come sembrava, dal nord, avendo occupato Leopoli e sconfitto gravemente gli austriaci. A questo punto, con un rapido intervento dell’Italia, l’Austria ancora impreparata su quel fronte, si sarebbero facilmente potuti congiungere questi salienti militari e fare fuori l’impero Asburgico.
Cadorna, che non aveva armi e neppure abiti per vestire i coscritti, né munizioni, chiese qualche mese di tempo
Nulla di men vero. Cadorna, che non aveva armi e neppure abiti per vestire i coscritti, né munizioni, chiese qualche mese di tempo. Il Governo, che sapeva essere la maggioranza degli italiani contraria all’intervento, fu favorevole a prolungare per quanto possibile i tempi. E i tempi affondarono il bel sogno churchilliano, perché in Turchia i soldati australiani e neozelandesi, malgrado i grandi sacrifici, non riuscirono a stare abbarbicati ai promontori di Gallipoli e la divisione francese si mosse lentamente, impensierita da una instabile situazione politica greca, dove per arrivare alla guerra si era dovuto far un colpo di stato contro il Re. Ma soprattutto i russi furono fermati dagli austriaci in Galizia con uno scontro vittorioso presso Glorice-Tarnow, e i tempi lunghi dell’intervento italiano permisero agli austriaci di predisporre difese nell’alto Veneto efficaci e rispondenti ai nuovi criteri militari.
Intanto in Italia si organizzò, con l’avvento della primavera, un’enorme campagna pubblicitaria a favore dell’intervento. I carabinieri non attaccarono più i cortei interventisti, che del resto erano formati da tutte le categorie borghesi con le loro pagliette in testa. Per galvanizzare questo pubblico, fu recuperato D’Annunzio che stava in Francia oppresso dai debiti che gli furono d’un colpo risanati. Venne in Italia e fece uno discorso dallo scoglio di Quarto da dove erano partiti i Mille. La retorica nelle sue mani raggiunge anche vette poetiche e infiammò i presenti, molti per i tempi di allora dove si parlava senza altoparlante, ma pochi se si fosse dovuto votare. D’Annunzio non si limitò al discorso di Quarto, cominciò a percorrere tutta l’Italia ma soprattutto Roma, accentuando anche la polemica contro i neutralisti in genere e in particolare contro Giolitti. Fu necessario che uno squadrone di cavalleggeri venisse inviato davanti alla casa dell’uomo politico piemontese prima che una colonna dannunziana si presentasse con scale e corde per salire fino al balcone dello statista. Il Prefetto di Roma sconsigliò a Giolitti di stare ancora in quella città. Il Re ebbe un incontro di due ore con Giolitti che era un vecchio servitore dello Stato e della monarchia piemontese e non avrebbe mai preso una posizione contro il Re. Il politico piemontese prese dunque un treno e si ritirò alla sua casa a Cavour, non facendosi più vedere fino a Caporetto.
La battaglia interventista ben difficilmente avrebbe vinto, se non con l’aiuto della forza di pochi uomini interessati ma potenti che peraltro sbagliavano tutto credendo, come diceva Cadorna, che “la guerra si sarebbe risolta entro l’estate”.