Donne e soprattutto mamme che hanno dovuto fare i conti la mafia, e altre che invece con la mafia hanno trovato un loro posto nel mondo (criminale). Se all’interno delle famiglie criminali ci sono donne e madri che comandano, allo stesso modo ci sono madri che da quel giro vizioso del crimine organizzato vogliono uscire. Una questione di vita o di morte, e i casi di mamme come Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, tre tra le tante, sono lì a testimoniarlo.
Se al più dei lettori e delle lettrici questi tre nomi suonano come nomi qualunque, sono le loro storie a non poter essere inquadrate nell’ordinario. Donne e madri sovrastate dall’ombra ingombrante della ‘ndrangheta. ‘Ndrangheta che arriva ad allontanarle dai figli, ucciderle ed esiliarle nel momento in cui decidono che sotto quell’ombra loro non ci vogliono più stare, così come decidono di non far crescere i figli con una carriera sì assicurata, ma quella tra le fila del crimine organizzato.
Lea Garofalo il 24 novembre del 2009 ha 36 anni, sua figlia Denise 17. Lea è testimone di giustizia e collabora con la magistratura dai primi anni 2000. Dal 2002 è sottoposta al programma di protezione perché decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco, padre di Denise. Nel racconto di Lea davanti ai pm, si concretizzano anni di spaccio e omicidi tra le due famiglie rivali di Petilia Policastro, comune di poco più di 9mila abitanti in provincia di Crotone.
Cosco intanto si trasferisce a Milano e da lì porta avanti i suoi affari criminali e siccome «la bastarda (Lea Garofalo, ndr) se n’è accorta» attira Lea in via Montello 9, nel capoluogo lombardo, al “fortino della ‘ndrangheta”. Qui la aspettano due sodali di Cosco che rapiscono Lea e la consegnano ai fratelli Carlo e Vito Cosco. Da lì le torture per farla parlare in merito alle dichiarazioni rilasciate ai magistrati inquirenti, poi l’omicidio. Il cadavere di Lea Garofalo sarà poi dato alle fiamme e i resti seppelliti alle porte di Milano. In una delle udienze del processo, Carmine Venturino, uno degli uomini che distrusse il corpo di Lea Garofalo, fa mettere a verbale con freddezza le fasi dell’omicidio e dell’occultamento del corpo.
Altrettanto forte è la vicenda di Maria Concetta Cacciola, figlia del boss Gregorio Bellocco e indotta al suicidio dalla sua stessa famiglia. A trent’anni Maria Concetta decide che è arrivato il momento di uscire dal contesto criminale in cui è cresciuta e di portarsi dietro anche i tre figli. inizia così la collaborazione con la giustizia, accusando il clan Bellocco di Rosarno: «L’ascoltammo con la collega Alessandra Cerreti — ha raccontato il pm Giovanni Musarò alla Commissione Parlamentare Antimafia —, nel primo verbale parlò di una serie di omicidi, e ci rendemmo conto che era attendibile; lei era terrorizzata».
Musarò, dda Reggio Calabria: «ascoltammo Maria Concetta Cacciola con la collega Alessandra Cerreti, nel primo verbale parlò di una serie di omicidi, e ci rendemmo conto che era attendibile; lei era terrorizzata»
Nel maggio 2011 arriva il programma di protezione, ma i figli di 16, 12 e 7 anni rimasero in Calabria coi nonni. La lontananza si fa sentire, così torna dai famigliari, i quali le assicurano il perdono. Maria Concetta però sa come vanno le cose nelle famiglie di ‘ndrangheta e a un’amica al telefono dice: «Tu lo sai che questi fatti non te li perdonano, no?… La verità… Loro lo fanno apposta per farmi tornare, hai capito?… Dice “così ritratti tutte cose, quello che hai detto e quello che non hai detto”, capito?».
Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso di collaborazione con lo Stato: la partenza per la nuova località protetta è già stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di “liberazione”. Alle 19 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, dell’acido muriatico. Padre, madre e fratello sono già stati condannati per maltrattamenti e minacce, e così un avvocato che s’era prestato al gioco della ritrattazione «indotta». Nei giorni scorsi è toccato a un altro avvocato, Gregorio Cacciola, zio di secondo grado della vittima, condannato a 6 anni e 4 mesi dal tribunale di Palmi.
In seno alla cosca di Rosarno c’è un’altra pentita che collabora con la giustizia, cugina di Maria Concetta Cacciola. È Giuseppina Pesce, 34 anni, figlia del boss di Rosarno Salvatore Pesce. Giuseppina è ancora in vita e ha potuto riabbracciare i suoi figli, ma la sua è un’altra storia di madre oppressa dai tentacoli della ‘ndrangheta all’interno della sua stessa famiglia. Famiglia che ha provato con ogni strategia, anche mediatica, a bloccare la collaborazione della donna. La conclusione delle indagini da parte della procura di Reggio Calabria sugli episodi che si sono consumati all’interno della famiglia restituisce un quadro a tinte fosche.
Minacce di morte alla giovane madre e maltrattamenti dei suoi figli in famiglia, tutto per costringere Giuseppina Pesce a interrompere la collaborazione con la giustizia. Strategia che, per un certo periodo, porta la donna a interrompere effettivamente la collaborazione con i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Donne e soprattutto mamme che hanno dovuto fare i conti la mafia, e altre che invece con la mafia hanno trovato un loro posto nel mondo (criminale)
Nell’aprile 2011, tra pressioni, violenze sui tre figli minori e ricatti, la donna infatti interrompe la collaborazione con i magistrati della dda di Reggio Calabria. Tornerà a pentirsi nell’agosto dello stesso anno e le indagini dei pm del capoluogo calabrese chiariscono i retroscena sulla vicenda. La donna scrive una lettera nell’aprile 2011 in cui denuncia indebite pressione da parte della Procura, all’epoca guidata da Giuseppe Pignatone, e le sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario (Giuseppina Pesce è stata condannata a 4 anni e 4 mesi nel processo “All Inside”, ndr). Poi l’intenzione di riprendere a collaborare «Per quanto attiene le dichiarazioni di essere stata costretta a collaborare, si è trattato di una mera tecnica difensiva. Tutto quello che ho riferito sino alla data 11 aprile 2011 è stato spontaneo e ciò che ho dichiarato corrisponde a verità».
L’epopea la racconta L’Espresso, compresa la conclusione delle indagini della procura, che danno il quadro della vicenda: «Una complessa strategia posta in essere dai familiari di strumentalizzazione dei minori al fine di indurre Giuseppina a recedere dalla collaborazione». Che il giorno della festa della mamma sia occasione per ricordare Lea, Maria Concetta e conoscere vicende come quella di Giuseppina Pesce.