Se Renzi vuole rilanciare l’occupazione, il Jobs Act non basta

Se Renzi vuole rilanciare l’occupazione, il Jobs Act non basta

Alcuni pezzi del Jobs Act sono letteralmente scomparsi, mancano all’appello in particolare quelli relativi alle politiche attive e i servizi pubblici per l’impiego. In teoria entro il 10 giugno avremo modo di conoscere la tanto attesa, almeno per gli addetti al settore, bozza sull’Agenzia nazionale per l’impiego (Agenzia), senza escludere una possibile proroga a settembre.

Il nodo centrale riguarda le risorse, se nel fondo ci fosse veramente almeno un miliardo per l’Agenzia, sarebbe una cosa fantastica, perché attualmente per i centri per l’impiego si spende molto meno. Mentre per le politiche attive, si utilizzerebbero direttamente le risorse provenienti dalla nuova programmazione Fse 2014-2020 (in questi giorni c’è stato a Roma un incontro tra Stato e Regioni su questo tema).

A ciò si aggiunge che per quanto riguarda il contratto di ricollocazione, il suo utilizzo avrebbe dovuto essere limitato solo per i licenziamento collettivo, perché parte del costo si poteva obbligatoriamente allocare nelle risoluzioni dei contratti. Come lo finanzi uno strumento valido per tutti, quando non ci sono neppure i soldi per tener in piedi i Centri per l’impiego ?

Altra questione sull’Agenzia nazionale è la versione che propone la Regione Toscana, ovvero creare 20 Agenzie regionali, il paradosso è che alcune Regioni hanno chiuso queste strutture perché ritenute inutili, adesso le riapriamo più grosse e strutturate di prima. Questa versione sembra la più probabile, in attesa delle modifiche del Titolo V della Costituzione: in questo caso si possono limitare i danni, solo se si applicano alcuni principi sani, come la presenza di un comitato di sorveglianza e l’indipendenza dei Revisori dei conti.

Passando al Contratto a tutele crescenti, è alla battaglia se presenti un possibile effetto sul mercato del lavoro. Innanzitutto vorrei evidenziare che le varie fonti utilizzate, Inps (comunicazioni obbligatorie) e Istat, permettono di ottenere informazioni in modo diverso, studiano cose diverse e non si esclude che all’aumento dei lavoratori avviati al lavoro non possa esserci un aumento della disoccupazione.

Le comunicazioni obbligatorie e le fonti amministrative in realtà sono strumenti molto più adatti per studiare il mercato del lavoro rispetto alle “stime” spesso molto approssimative dell’Istat. È vero che queste fonti non permettono un quadro completo del mercato, ma sicuramente per il lavoro subordinato permettono analisi impossibile con i dati Istat (Esempio 1 – Mappa di densità opportunità di lavoro create in Brianza).

Esempio 1 – Mappa di densità opportunità di lavoro create in Brianza

Fonte: Nostre Elaborazioni.

Ovviamente, dipende da cosa si cerca e si studia, ma soprattutto a differenza dei dati Istat, questo strumento offre molte più applicazione nel campo delle politiche attive del lavoro, più precise e dettagliate alle esigenze dei Centri per l’impiego.

Tornando al Contratto a tutele crescenti, sbaglia palesemente il Partito democratico quando afferma che porterà nuova occupazione, rilancio e il “paradiso in Terra”. Se c’è un effetto, questo sarà solo un effetto di sostituzione tra i contratti, trasformando una parte degli attuali precari in lavoratori a tempo indeterminato. Se il Pd è in errore, le accuse che la nuova formula contrattuale (o meglio il nuovo modello di risoluzione) generi un esercito di precari non ha senso.

Prima della riforma, quasi l’85% dei nuovi contratti era “atipico”: era già un mercato estremamente precario e questo ormai era una formula non più sostenibile e consolidata da diversi anni.

Arriviamo al vero nemico del Contratto a tutele crescenti, ovvero i “Tirocini”, il lato oscuro del mercato del lavoro italiano. Uno strumento oggetto di molteplici interventi normativi, alcuni addirittura incostituzionali (dall’articolo 18, della legge 196/1997, all’ articolo 11, del decreto legge 138/2011 convertito nella legge 148/2001, all’articolo 1, commi 34 – 36 della legge 92/2012, all’ articolo 2, del decreto legge 76/2013 convertito nella legge 99/2013).

Accanto al tirocinio formativo (non entro in questo caso nei dettagli della materia, ne sul ruolo della Commissione di certificazione), si aggiunge anche il tirocinio di inserimento e reinserimento lavorativo rivolto a inoccupati in cerca di occupazione, a disoccupati, a lavoratori sospesi e in mobilità.

Il primo non è riconducibile a un contratto di lavoro, ed è caratterizzato da un rapporto trilaterale, che vede un soggetto promotore fare da “ponte” tra un un’azienda ospitante e un giovane, con lo scopo di favorire l’orientamento e la formazione di questi. Mentre nel secondo, seppur nella stessa fattispecie, dove il soggetto promotore è spesso il Centro per l’impiego, le somme percepite dal tirocinio di inserimento costituiscono reddito da lavoro dipendente.

Oggi entrambi gli strumenti nascondono palesemente forme di “sfruttamento della manodopera”: qui il problema non sono le norme e le regole, qui la questione è squisitamente applicativa. Infatti, nel caso in cui un tirocinio formativo mascheri in realtà un rapporto di lavoro subordinato, anche se la legge non prevede espressamente la conversione del rapporto in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il Ministero del Lavoro ha chiarito, con la circolare n. 24 del 12 settembre 2011, che «il personale ispettivo dovrà procedere con la riqualificazione del rapporto come di natura subordinata, con la relativa applicazione delle sanzioni amministrative applicabili in tale ipotesi (come ad esempio in tema di Libro unico del lavoro, prospetto paga e dichiarazione di assunzione), disponendo il recupero dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi omessi».

In sintesi, se ti beccano, ti danno una bella “salassata”. Il problema è se ti beccano. Gli ispettori al lavoro sono in tutta Italia circa 2.800 e a questi vanno sommati i circa 500 Carabinieri del Nucleo Tutela del Lavoro. Sono “quattro gatti” di fronte a quasi cinque milioni di aziende, cui vanno aggiunti i datori di lavoro domestici, difficilmente quantificabili.

A spanne il rischio di un controllo è per ogni azienda uno su cinque anni, ma dato che non tutti gli ispettori svolgono attività sul campo e che le ispezioni non si fanno a tappeto, ma su indagini mirate, il calcolo corretto è a spanne (ma in difetto) di circa un controllo ogni 20 anni. Data la peculiarità delle nostre aziende italiane, queste fanno in tempo a nascere, sfruttare il più possibile i tirocinanti e morire, senza neppure un controllo da tali uffici.

L’unica soluzione è limitare lo stage ai soggetti che ancora devono diplomarsi o laurearsi, mettendo le università o Istituti come strutture di controllo e di garanzia di tale percorso formativo, e cancellare qualsiasi altra forma di tirocinio/stage, oppure obbligare l’impresa a pagare delle “penali” in caso di mancata stabilizzazione.

Infine, un secondo vero nemico del Jobs Act è l’assenza di un rilancio della “Domanda aggregata”, che non può avvenire con l’eliminazione dell’articolo 18 o la decontribuzione delle risorse. Tuttavia, il problema non riguarda la transizione scuola/lavoro oppure gli investimenti in capitale umano. L’esempio spesso preso di riferimento, ovvero il caso del modello “Duale Tedesco”, non è dimostrato empiricamente: servono analisi aggregate che tengono conto di molteplici fattori macro-economici, in alternativa si rischia una “palese” fallacia ecologica (ovvero il successo tedesco potrebbe dipendere dal peso dell’Export, la classe dimensionale delle aziende, il basso debito pubblico ecc.).

L’investimento in capitale umano rappresenta certamente un fattore importante di crescita, ma per l’Italia è assolutamente marginale in questo momento rispetto a questioni che esulano dal tema regolamentare e fanno riferimento all’economia dello sviluppo.

Questo è ancora più vero se pensiamo alla Garanzia Giovani. Non è perché in Italia non si investe in Apprendistato che lo strumento è un “flop”, ma perché in questo momento “latita” la domanda di lavora. Basta osservare la Curva di Beveridge. L’andamento del mercato del lavoro in questi anni vede un vero eccesso di offerta di lavoro che non si risolve con più formazione o migliori strumenti di intermediazione. La realtà è che la Commissione europa ha lanciato un programma troppo ambizioso, con quattro soldi, di cui gli esiti fallimentare erano piuttosto certi.

La conferma arriva anche dalle “penose” offerte presenti sul portale Click-lavoro. Le principali occupazioni disponibili non sono l’artigiano qualificato in restauro mobili o nel manifatturiero o l’ingegnere della multinazionale, ma gli addetti alle pulizie, camerieri, assistenti domiciliari e addetti alla logistica, non certo i migliori esempi per l’apprendistato.

Qui il vero problema è il credito per le imprese. Anche negli Stati Uniti si parla di Jobs Act, ma il tema non è la regolamentazione, ma piuttosto come finanziare tramite nuovi modelli di accesso al credito le imprese, tramite crowdfunding o mini-bond (Debt Capital Markets). In Italia, l’obiettivo è quello di finanziare e sviluppare la futura domanda, svincolandola dalla dipendenza del sistema bancario.

In conclusione, se Renzi vuole rilanciare l’occupazione, la riforma del mercato del lavoro non basta. Deve rilanciare la domanda, forse adottando il metodo americano. Ecco, questo dovrebbe rappresentare l’argomento del prossimo incontro con il presidente Obama, traduttore permettendo.

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