Robert Ford fu uno dei primi diplomatici occidentali ad appoggiare l’insurrezione contro Assad. Ora l’ex ambasciatore americano sostiene che per il regime alawita ci sono «segnali dell’inizio della fine». Forse la cerchia di Assad sta implodendo. Sicuramente sul piano militare il governo ha preso delle batoste. Della guerra siriana si parla sempre in relazione allo Stato Islamico, che in questi giorni sta sfidando i qaedisti di al Nusra a Quneitra, mentre si teme il contagio della crisi in Libano e in Israele. Però le maggiori conquiste delle ultime settimane sono state fatte da un gruppo la cui sigla è poco nota all’opinione pubblica: Jaish al Fatah. Comprende la stessa Al Nusra ed altri gruppi islamisti, come il potente Ahrar al Sham, e si dice che stia collaborando con alcune formazioni “moderate” e secolari, compresa Fursan al Haq, che ha ricevuto in passato armi dall’Occidente. Noah Bonsey, analista dell’International Crisis Group, esperto di Siria, spiega a Linkiesta come si sta evolvendo la guerra.
Noah, dopo la presa di Idlib, importante città del Nord, c’è stata quella di Jisr al Shughour, centro strategico verso le roccaforti del regime. Le vittorie di Jaish al Fatah sono una svolta della guerra? Perché questa sigla è così forte?
Jaish al Fatah rappresenta un notevole miglioramento della capacità di coordinamento tra i ribelli delle regioni settentrionali, e questa è una componente primaria della sua forza. Il fatto che questo coordinamento abbia coinvolto un gran numero di fazioni, su più di un fronte e in un periodo piuttosto lungo, di alcune settimane, costituisce un fattore piuttosto significativo.
Si parla spesso dei successi di Jaish come del prodotto di un impegno maggiore di Arabia Saudita e Turchia, conseguenza dell’inerzia americana.
Probabilmente il sostegno esterno, di Arabia, Turchia e Qatar, ha giocato un ruolo in questa avanzata, ma credo che i due maggiori fattori dietro la sequenza di vittorie siano, da una parte, la capacità di coordinamento dei ribelli, e dall’altro, la situazione difficile delle forze di Assad, in questa parte del Paese.
Perché il regime è così in difficoltà?
Quello a cui stiamo assistendo è il risultato, su lungo periodo, di un problema di vecchia data di Assad, ossia la mancanza di uomini. Il regime sta perdendo combattenti, a un tasso piuttosto alto, e non riesce a rimpiazzarli alla stessa maniera. La conseguenza è che il governo sta diventando sempre più dipendente dai suoi alleati, in primo luogo dall’Iran e da Hezbollah, gli unici a poter fornire soldati in modo da colmare questo gap.
Fino a quando l’Iran continuerà a sostenere Assad, sul piano economico e su quello strettamente bellico?
Il punto è che Teheran, proprio come Hezbollah, decide autonomamente in quali zone mandare i propri soldati, e non necessariamente le sue priorità coincidono con quelle del regime. Quella di Idlib, ad esempio, è un’area di scarso interesse per gli ayatollah, il che spiega perché si sono visti pochi iraniani combattere da quelle parti. I risultati sul campo sono evidenti: se il regime viene abbandonato a se stesso, senza sostegno straniero, nelle aree del Paese in cui l’opposizione è forte, non è in grado di difendere i propri territori, quando gli attacchi dei ribelli sono così organizzati.
Il regime e i suoi alleati rimangono saldamente in possesso delle proprie zone chiave, da Damasco fino alla costa
Questo significa che per Assad è l’inizio della fine, come ha detto l’ex ambasciatore Ford?
No, dobbiamo essere prudenti e non giudicare gli esiti delle prossime battaglie nel resto del Paese da quello che abbiamo visto ad Idlib. Il regime e i suoi alleati rimangono saldamente in possesso delle proprie zone chiave, da Damasco fino alla costa, dove hanno contenuto e, in alcuni casi, distrutto la capacità militare avversaria. È ragionevole pensare che difenderanno queste aree con un’efficienza migliore di quella dimostrata nel Nord della Siria. Anche in caso di divisioni all’interno della cerchia di Assad, alcune brigate continueranno a combattere, assieme alle milizie alleate. Insomma, in Siria nessuno dei fronti sta per vincere militarmente, ne’ è destinato a farlo.
È giunto il momento che i sostenitori dei due fronti, da una parte, per il regime, Iran e Russia, dall’altra, per l’opposizione, Stati Uniti, Arabia Saudita, Turchia e Qatar, riconoscano che gli avversari non possono capitolare
Se la svolta dalla guerra non può essere militare, resta la politica?
Si, è giunto il momento che i sostenitori dei due fronti, da una parte, per il regime, Iran e Russia, dall’altra, per l’opposizione, Stati Uniti, Arabia Saudita, Turchia e Qatar, riconoscano che gli avversari non possono capitolare e comincino il difficile lavoro di delineare una soluzione geopolitica alla crisi. In Siria i protagonisti sono troppo divisi e hanno troppo interessi per passare dalla guerra al politica: tocca ai loro sponsor fare concessioni, per evitare un’ulteriore radicalizzazione, che avvantaggerebbe solo lo Stato Islamico.
Quale potrebbe essere questa soluzione?
Occorre che i “padrini” dei due fronti abbandonino ogni wishful thinking e pensino a cosa possono realisticamente ottenere. La soluzione negoziata dovrebbe prevedere l’uscita di scena di Assad, ma allo stesso tempo una riforma delle istituzioni, in modo da costruire uno Stato pluralista, che garantisca tutte le comunità, alawiti compresi, e decentralizzi il potere, anche a livello di sicurezza. Le comunità locali devono giocare un ruolo nella protezione di loro stesse. Occidente e sunniti devono fare pressione sui ribelli affinché scelgano di avere un ruolo nella nuova Siria. L’Iran deve convincere Assad.
Gli iraniani sono stati invitati a partecipare ai nuovi colloqui tra le parti, a Ginevra.
È giusto includere l’Iran nei negoziati. Teheran deve accettare che la Siria non faccia più parte del suo “asse della resistenza”. Allo stesso tempo, avrà la garanzia che Damasco resti non-allineato, fuori dall’asse sunnita, e che gli assadisti possano proteggersi.
La Russia cosa ci guadagnerebbe?
Mosca vedrebbe rafforzato il proprio status internazionale, dopo avere co-sponsorizzato una simile soluzione. Potrebbe affrontare meglio la minaccia del jihad. E comunque manterrebbe un legame su quelle delle zone della Siria – vedi la costa, ndR – in cui ha investito parecchio, sul piano militare.