Gli italoamericani parlano una lingua inesistente. Un miscuglio di dialetti antichi e italianizzazioni di termini inglesi, francesi e yiddish che probabilmente nemmeno tra loro capiscono o sanno spiegare fino in fondo. Dopotutto, la loro lingua è l’inglese, la loro casa è New York, Miami, il New Jersey. Mangiano spaghetti con le polpette, pizze cariche di condimenti e con la pasta insipida, salse rosse e dolci come il ketchup, ma che non sono ketchup. Hanno ricette tradizionali che si perdono nella storia di un Paese che non hanno mai visto, ma di cui hanno sentito parlare. Qualche mese fa sono stato a trovare Frank Serpico, nato a Brooklyn da una famiglia di origini napoletane, veterano della Seconda Guerra Mondiale che deve la sua fama alla sua carriera nella polizia e a un film con Al Pacino: «Vorrei tornare in Italia per vivere serenamente», ha detto a un certo punto. «Potrei spostarmi per la campagna, da un villaggio all’altro su un carretto trainato da un asino». Ci sarebbe stato da spiegargli che quell’Italia non esiste più da molti anni, che adesso somiglia all’America, ma in piccolo. Che non ci sono carretti trainati dagli asini ma autostrade incistate nelle montagne, fabbriche a picco sul mare, l’Expo. Sarebbe stato inutile, lo sapeva benissimo anche lui: l’America aveva fatto la sua fortuna e la sua sfortuna, gli aveva dato una casa e una guerra da combattere, prima in Europa e poi in Patria. Sarebbe rimasto qui, nello stato di New York dove era cresciuto. Da americano, come era cresciuto.
Michael Valente era nato a Sant’Apollinare, in provincia di Ravenna, nel 1895. Nel 1913 è emigrato negli Stati Uniti, dove ha cominciato a lavorare come inserviente in un ospedale psichiatrico. Si è arruolato nel 1916 nella Guardia Nazionale e ha servito in Francia con la compagnia D, 27ma divisione, 107mo fanteria. È l’unico italiano che abbia mai ricevuto la medaglia del Congresso al valor militare, durante la Prima Guerra Mondiale.
Dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, il 19 aprile 1917, gli immigrati italiani e i loro figli venivano posti di fronte a una scelta: partire per combattere nell’esercito americano, oppure tornare in Italia per combattere a fianco dei propri connazionali. La stragrande maggioranza dei giovani ritenuti abili ha scelto di arruolarsi tra i berretti verdi. Ci sono varie ragioni per cui era considerato più vantaggioso combattere a fianco degli americani e la prima è sicuramente di carattere utilitaristico: un periodo al fronte assicurava la carta di lavoro e un passaggio facile verso la cittadinanza, per sé e per la propria famiglia. Negli anni Dieci del Novecento l’immigrazione di massa dall’Europa era ancora in pieno sviluppo, per molti significava passare da condizioni di miseria assoluta a condizioni di vita precaria, ma con un obbiettivo di miglioramento. Qualsiasi modo per velocizzare il processo di integrazione era ben accetto, fosse anche il caso di mettere a rischio la propria vita per un Paese di cui ancora non si conosceva bene la lingua. Oltretutto, la maggior parte degli uomini tra i diciassette e i trentacinque anni, la vita la rischiava ugualmente lavorando nelle miniere, come carpentieri e muratori, a posare le ferrovie e nelle fabbriche. La prospettiva di un permesso permanente addolciva la pillola.
L’Italia era il posto da cui erano scappati, che li aveva costretti a emigrare per non vivere in miseria
L’Italia, poi, era il posto da cui erano scappati, che li aveva costretti a emigrare per non vivere in miseria. Per molti il fatto di poter servire il loro Paese d’adozione significava un passo verso la pubblica accettazione che fino ad allora avevano potuto soltanto sperare. Tommaso Ottaviano — come racconta lo storico David Laskin nel suo saggio The Long Way Home — era un operaio di Ciorlano, in provincia di Caserta, nato nel 1896 ed emigrato in Rhode Island nel 1913 per lavorare come operaio in una fabbrica di oggetti di rame. Era stato esentato dal servizio perché figlio unico di madre vedova ma aveva insistito per partire ugualmente. Dall’Argonne scriveva a sua madre rimasta a Lymansville in italiano: «Siamo alle calcagna dei tedeschi, ma abbiamo comunque bisogno di fortuna e dell’aiuto di Dio». Non erano passati più di cinque anni da quando Ottaviano aveva deciso di attraversare l’Atlantico e già nutriva un sentimento di gratitudine verso la Nazione che lo aveva accolto, tale da morire — il primo novembre del 1918 — nella guerra che lo aveva riportato in Europa. La volontà di cambiare vita, di integrarsi e di lasciare in eredità ai propri figli abbastanza da vivere serenamente e da costruirsi un futuro migliore di quello che era toccato a loro in sorte, era abbastanza forte da passare attraverso un sacrificio più grande di quello che gli veniva richiesto ogni giorno.
Mentre i soldati italiani — come racconta perfettamente Mario Monicelli in quel capolavoro senza tempo che è La grande guerra — per la prima volta venivano a contatto tra di loro e imparavano a riconoscersi da una parte all’altra del Paese, mescolando tradizioni regionali che fino ad allora erano rimaste a distanza, gli italoamericani delegavano il proprio futuro all’onore delle armi. Se i combattenti di origine italiana della Seconda Guerra Mondiale erano sbarcati ad Anzio con la curiosità per un passato che non avevano mai conosciuto, chi si arruolava nel 1917 lo faceva sapendo a cosa sarebbe andato incontro se fosse tornato in Italia e vedeva nell’esercito un’opportunità di integrazione e di ulteriore allontanamento da ciò da cui era fuggito. Nel saggio di Laskin vengono riportati alcuni stralci del diario di Leonardo Costantino, nato a Canetto, in provincia di Bari e emigrato a San Diego. È scritto in un inglese male arrangiato, imperfetto, sporco, ma gonfio di speranza e di uno spirito patriottico che va ben oltre l’attaccamento al suolo. È grato, ansioso di condividere con i compagni — “This men’s army”, come li definisce — un’esperienza che non vede l’ora di riportare a casa: in America. Tra ragazze francesi e partite a carte per ingannare l’attesa, il conto dei combattimenti e le annotazioni sul tempo.
Gli italoamericani delegavano il proprio futuro all’onore delle armi
Il 17 luglio 1861, prima che la maggioranza dei soldati italoamericani della Grande Guerra fosse nato, Giuseppe Garibaldi rispondeva, per interposta persona, a un invito di Abramo Lincoln a raggiungerlo come suo generale nella guerra civile. Garibaldi chiedeva che venisse menzionata l’abolizione della schiavitù tra gli obbiettivi ufficiali del conflitto, cosa che Lincoln era restio a concedere, temendo una crisi agricola. La storia vuole che Garibaldi a questo punto abbia declinato rispettosamente l’offerta, ma abbia calorosamente appoggiato l’intervento di molti dei suoi ufficiali. Dopo la stesura e la diffusione del Proclama di emancipazione, avrebbe scritto al nuovo Presidente: «I posteri vi ricorderanno come l’abolitore della schiavitù. Un titolo molto più invidiabile di qualsiasi corona e più prezioso di qualsiasi tesoro esista al mondo». Si radica in quei tempi — rifacendosi ai nomi dei generali Enrico Fardella, Edward Ferrero e Francis Spinosa, ad esempio — la partecipazione degli italiani alle guerre americane, nelle fondamenta di una Nazione ancora incerta e diseguale, ma che ha sempre nutrito un ideale di rivalsa e un sentimento di grandezza.
L’Italia era un Paese diviso, con l’aspirazione a un’unità incerta e difficile da immaginare. L’America era un Paese grande, fatto di lingue diverse, di volti diversi e di diverse tradizioni, ma in grado di mettere i suoi abitanti uno accanto all’altro, di renderli capaci del sacrificio l’uno per l’altro. Se non altro, in nome della propria serenità.