Forse non ci sarà alcun Orwell ad omaggiare queste storie, né un Ernest Hemingway a raccontare “per chi suona la campana”. Eppure, accanto ai militanti fondamentalisti che lasciano l’Occidente per unirsi al progetto del Califfo, ci sono altri volontari, meno noti, che compiono lo stesso percorso con motivazioni opposte. Foreign fighters, sì, ma contro lo Stato Islamico, in Siria e ed Iraq.
Le stime sono incerte e i numeri restano esigui, se paragonati a quelli dei militanti che si arruolano col Califfato (16.000 persone, da novanta Paesi diversi, secondo il Dipartimento di Stato americano). Ma si tratta di scelte simboliche, compiute, in alcuni casi, da italiani. D’altronde, il decreto antiterrorismo ha introdotto delle pene per i foreign fighters, definendo il fenomeno come l’“organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo” (il che escluderebbe, a rigor di logica, chi si arruola contro lo Stato Islamico).
L’unico nome noto è quello di Karim Franceschi, da Senigallia: madre marocchina e padre italiano, 70 anni fa partigiano con la brigata Marcello. Proprio per emulare le gesta paterne, Karim, dopo avere conosciuto di persona il dramma siriano – una visita al campo profughi di Soruc, in Turchia, organizzata da un progetto di solidarietà dei centri sociali, Rojava calling – ha varcato il confine turco e ha raggiunto a Kobane, in Siria, i combattenti delle YPG, le Unità di protezione del popolo.
Con le brigate dei curdi siriani si sarebbero arruolati cinque italiani. Un altro di loro ha raccontato la sua storia ai microfoni di Radio Capital. Non è difficile, spiega, contattare le milizie attraverso i social network, come Facebook. Poi basta prendere un volo fino a Sulaymaniyah city, nel Kurdistan iracheno. A quel punto sono le unità delle YPG ad occuparsi di tutto: il trasferimento oltre confine, verso la base siriana di Derek City, dove c’è una sorta di accademia per militanti occidentali, e poi, eventualmente, il passaggio al fronte.
Anche gli altri curdi, quelli iracheni, i peshmerga, hanno visto arrivare un certo numero di foreign fighters. Tra di loro c’è un canadese, Ian Bradbury, che ha parlato recentemente con la Cnn. Bradbury ha costruito un’unità, la 1st North American Expeditionary Forces, che fornisce materiali di supporto e addestra i miliziani locali. Anche se un portavoce dei curdi iracheni, Helgurd Helmat, ha dichiarato che l’arruolamento di combattenti stranieri è illegale, l’arrivo di consiglieri militari è ben accetto. Del resto, l’invio di boots on the ground occidentali non è all’ordine del giorno – anche se una revisione della strategia contro lo Stato Islamico viene chiesta da più parti, soprattutto dopo la presa di Palmira, in Siria, e Ramadi, in Iraq – e l’addestramento dei locali, sostiene Bradbury, è il modo migliore per colmare il gap con il Califfato. Sempre nel Nord dell’Iraq, ma nella piana di Ninive, dove, prima dell’arrivo dell’IS, viveva buona parte della comunità cristiana, c’è un americano di Baltimora, Matthew VanDyke, che ha fondato un’agenzia di sicurezza no profit, i Sons of Liberty International, e ha formato i miliziani della NPU (Nineveh Plains Protection Unit), un’unità di cristiani iracheni che vuole difendersi dallo Stato Islamico.
Tra i foreign fighters contro l’IS ci sono canadesi, inglesi, tedeschi e persino un’israeliana, Gill Rosenberg, che ha deciso di unirsi ai combattenti delle YPG “per ragioni umanitarie ed ideologiche”, ma la maggioranza è americana, in buona parte ex militari che, rientrati in patria, faticano a vestire panni civili. Tempo fa il New York Times ha raccontato la vicenda, archetipica, di Patrick Maxwell, veterano della guerra irachena: l’addio ai Marines, nel 2011, il passaggio da un lavoro all’altro, fino alla scoperta di un nuovo nemico, il Califfato, e una nuova missione. Così l’agente immobiliare Maxwell prenota un volo commerciale e da Austin, Texas, si ritrova in Iraq, a fianco dei peshmerga.
Il Dipartimento di Stato, però, non vede di buon occhio i civili che combattono in Mesopotamia, tanto che, su pressione di Foggy Bottom, i curdi hanno rimosso Maxwell dal fronte, costringendolo a tornare a casa. I motivi sono facili da capire: ogni americano è una preda ambita, potrebbe essere ucciso o rapito, diventando uno strumento di propaganda o di ricatto. Inoltre, alcuni gruppi impegnati contro lo Stato Islamico – le stesse YPG, ad esempio – sono legati ad organizzazioni tuttora definite terroristiche dallo stesso Dipartimento, come il PKK.
I governi occidentali, però, mantengono un atteggiamento forzatamente ambiguo. Se è vero che un civile non può decidere di arruolarsi volontariamente contro l’IS, d’altra parte è difficile condannare che si unisce alla battaglia contro il Califfo. Il premier britannico David Cameron, ad esempio ha fatto capire che c’è una differenza fondamentale tra chi combatte con i curdi e chi lo fa con lo Stato Islamico. Due veterani inglesi, Jamie Read e James Hughes, sono tornati a casa dopo alcuni mesi passati con le YPG. Hanno detto di avere combattuto “a scopo umanitario” e non c’è stata alcuna azione giudiziaria nei loro confronti.
Secondo un portavoce dei curdi siriani, un centinaio di americani si sarebbero arruolati con loro (manca, purtroppo, una verifica indipendente). In Iraq il numero è inferiore, anche per via della politica dei peshmerga. Rispetto ad Orwell, altri tempi e altro contesto. Durante la guerra civile spagnola degli anni Trenta il contingente di volontari statunitensi superava i 2.500 uomini.