“Youth”, la grande leggerezza di Paolo Sorrentino

“Youth”, la grande leggerezza di Paolo Sorrentino

Era uno dei film più attesi dell’anno. Lo aspettavano i critici, ansiosi di capire se Paolo Sorrentino potesse reggere l’Oscar e replicareLa grande bellezza senza rimanerne schiacciato. Ma lo aspettava anche il pubblico, quel pubblico italiano che proprio grazie a La Grande bellezza era tornato a dividersi e a discutere di cinema come solo una partita di calcio di solito riesce a fare.

Lo aspettavano quelli che Sorrentino lo amano e lo seguono da L’uomo in più, sia quelli che non capiscono come possa, nel 2015, un regista emozionare e guadagnare tanta attenzione in tutto il mondo raccontando storie che sembrano sconnesse, per di più con un linguaggio cinematografico ricercatissimo.

Youth è un film che divide: da una parte chi lo ama, dall’altra chi è infastidito dal suo suo modo di mettere in difficoltà gli spettatori

Ora l’attesa è finita, il film è stato presentato a Cannes ed è in proiezione nelle sale di tutta Italia e la partita ha inizio: e infatti il pubblico e la critica stanno reagendo come ci si aspettava. Da una parte chi lo ama, dall’altra chi ne è infastidito, soprattutto per quel suo modo di mettere sempre in difficoltà gli spettatori con film mosaico, per niente didascalici, che richiedono a chi guarda l’umiltà di lasciarsi guidare, ma anche lo sforzo di metterci qualcosa di proprio, di unire i puntini e goderne.

Youth in fin dei conti è proprio questo, è come uno di quei giochi della settimana enigmistica che le nonne lasciano da fare ai bambini, una mappa di puntini sparsi, un caos a prima vista che diventa tratto, immagine e significato soltanto grazie a chi quei puntini li unisce. L’unica differenza è che, se nella settimana enigmistica i puntini sono numerati, in Youth i pezzi del mosaico sono sparsi, non di rado contraddittori, qualcuno è una trappola, altri, seppur minuscoli e all’apparenza secondari, possono essere decisivi per qualcuno.

Sorrentino non racconta e non si limita a mostrare, Sorrentino suggerisce, lasciando allo spettatore la ricerca del significato

Di un film così, come di quasi tutti quelli di Sorrentino, parlare della trama cercando di metterla fila costruendo legami per farne un ordito unico è un’operazione tanto inutile quanto leziosa. La narrativa di Sorrentino non è fatta così. C’è una frase che descrive un atteggiamento molto anglosassone verso la narrazione, è la celebre Show, don’t tell. Mostra, non raccontare. È una frase che sembra suggerire che ci siano due soli modi per trattare una storia: o la descrivi, rischiando la didascalia, o la srotoli davanti agli occhi dello spettatore, rischiando di stancare e di essere criptici.

Sorrentino, che di sicuro non opta per il tell, in realtà supera anche lo show — a destra e senza freccia — preferendo la suggestione, la giustapposizione di dialoghi, spesso spiazzanti e sempre definitivi, e di inquadrature, come al solito bellissime, esageratamente perfette a volte. È da questa continua giustapposizione, questo mostrare personaggi attraverso dialoghi — a volte di saggezza memorabile, altre di banalità sconcertante — e contemporaneamente questo suggerire, attraverso dettagli e personaggi di terzo piano portati di tanto in tanto in prima fila, è da tutto ciò che viene fuori un film come Youth.

Nella galleria dei personaggi rifugiati al riparo dalla vita nell’hotel di lusso sperduto nelle Alpi svizzere ce ne sono due principali, che come i binari di una ferrovia danno la direzione del procedere, Sono i due vecchi amici Fred Ballinger (Michael Caine) e Mick Boyle (Harvey Keitel), due vecchi artisti arrivati alla fine della loro carriera a segnare il passo e a mostrare la costante duplicità, la volontaria contraddizione permanente del film.

Ballinger è un compositore, celebre in tutto il mondo per un’opera che però non vuole più eseguire, le Simple Songs. È in pensione, ha “perso” la moglie dieci anni prima, e neppure l’interessamento della Regina in persona, che lo vuole a dirigere proprio le sue Simple Songs per il compleanno del Re consorte, riesce a smuoverlo. Mentre Ballinger davanti a sé sembra non vedere più nulla, il suo amico Boyle, grande regista, sembra non volersi arrendersi alla vecchiaia e sta lavorando con un gruppo di giovani sceneggiatori al suo film testamento, quella dovrà essere l’opera migliore della sua carriera. Salvo il fatto che non tutto quello che all’inizio sembra, poi alla fine è.

In Youth ci sono tutte le sue ossessioni di Sorrentino: il tempo, l’arte, la delicatezza e insieme drammaticità della vita, la potenza definitiva dell’amore e dell’amicizia

Accanto a loro c’è una galleria di personaggi iconici, anche loro non di rado contraddittori e sorprendenti: c’è un giovane attore californiano incastrato da una interpretazione che detesta, ma di cui tutti si ricordano; c’è un Maradona sofferente che sa ancora usare il mancino (la scena nel campo da tennis è un vero capolavoro) e che malgrado sia in costante confronto con la propria decadenza e sogni il passato, alla domanda della compagna che gli chiede “Cosa pensi”, risponde “Al futuro”. O ancora, c’è una figlia — quella di Ballinger — che a quarant’anni vede cadere le proprie certezze sentimentali e sessuali e si ritrova in balia dell’ansia per il futuro; una Miss Universo disarmante che è molto di più intelligente di quel che mostra; uno scalatore malinconico e solitario dalla barba lunga che la soluzione all’ansia la trova sospeso sul baratro, una coppia indecifrabile che non parla mai e poi molti, molti altri.

È difficile comprimere il significato di un film come Youth in una recensione. E lo è soprattutto perché grazie a quel costante mostrare e suggerire, grazie all’affollarsi di tutte le sue ossessioni — il tempo che fugge, il senso dell’arte, la delicatezza e insieme drammaticità della vita, la potenza definitiva dell’amore e dell’amicizia, l’acume del non prendersi sul serio — Sorrentino sembra offrire agli spettatori una struttura nello stesso tempo satura e aperta, che ogni spettatore può riempire con le proprie ossessioni, unendo i puntini come vuole e come può.

È una parentesi di estetica e di finzione, un tentativo di leggerezza da parte di un autore il cui tratto dominante è sempre stato malinconia

Resta però una sensazione più forte di tutte: che l’Hotel sperduto tra le Alpi sia una parentesi dalla vita non solo per i personaggi che ci si rifugiano, ma anche per noi che lo vediamo. Perché in fondo, come per le Simple Song di Ballinger, anche questo Youth di Sorrentino è un Simple Film, un semplice film, una parentesi di estetica e di finzione, un tentativo di leggerezza da parte di un autore il cui tratto dominante è sempre stato malinconia.

Youth è un’antologia di piccole saggezze e grandi paure, un manuale per vincere la sensazione di inadeguatezza che alberga in tutti noi e che, proprio in noi ha la soluzione

Insomma, Youth è un film che qualcuno proverà leggere come arrogante e intellettuale, ma che in realtà è la prova più matura che poteva offrirci Sorrentino, che dopo La Grande Bellezza ha messo sullo scaffale un delicato catalogo delle proprie ossessioni, un’antologia di piccole saggezze e grandi paure, un manuale per vincere la sensazione di inadeguatezza che alberga in tutti noi e che, proprio in noi ha la soluzione.

La scena perfetta che lo riassume, in realtà, non esiste. È una scena di un film mai girato, raccontata all’interno di Youth da una bambina. Accade a circa metà del film, in un negozio colmo di orologi a dondolo e cucù fatti suonare contemporaneamente da Ballinger. Con lui c’è anche il giovane Jimmy Tree (Paul Dano) ossessionato dai fan che di lui ricordano solo l’interpretazione di un robot, che lui odia. A un certo punto gli si avvicina la ragazzina. Vuole fargli i complimenti, ma non per l’interpretazione del robot Mister Q, per un altro film che «non ha visto nessuno», in cui Jimmy interpreta un padre che, spaventato dalla paura di essere inadeguato, è scappato, lasciando crescere il figlio da solo.

“Quella scena mi ha colpito per un motivo”, gli dice la ragazzina, “perché ho capito che tutti siamo inadeguati alla vita. Ed è proprio per questo che non possiamo averne paura”.

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