A Milano e in Lombardia si muore in bicicletta meno che in passato. Ma il merito non è delle politiche messe in campo. Stando ai dati forniti dalla Regione a fine maggio i decessi sono 49 in tutta la Lombardia, la cifra più bassa degli ultimi quindici anni secondo l’ultimo rapporto ACI-Istat basato su dati 2013. Ma si parla anche di 4613 incidenti annui con 12 feriti giornalieri, sempre in Lombardia. Il dato da osservare è proprio quello sugli incidenti complessivi – inclusi i non mortali – per capire se ciò che è stato fatto in termini di ciclabili, limiti di velocità, casco è sufficiente. A Milano i due terzi delle vittime della strada appartengono alla categoria delle “utenze deboli” – pedoni, ciclisti e motociclisti – come denuncia da anni l’Osservatorio utenze deboli, il centro di ricerca ed elaborazione dati di AIM o le organizzazioni come FIAB,onlus che riunisce 130 associazioni locali e che da anni conduce campagne di monitoraggio sui dati ISTAT riguardanti le vittime della strada, oltre a proporre soluzioni legislative.
In Lombardia si verificano 4613 incidenti annui, con 49 morti e 12 feriti al giorno
“Safety in numbers”. Dietro questa espressione si nasconde il calo delle vittime da incidenti in bicicletta. «Ci sono meccanismi psicologici e altri misurabili: se sono abituato a vedere molti ciclisti per le strade è meno probabile che vengano investiti, aumenta l’attenzione di chi guida l’auto. Esattamente come sono portato a leggere “STOP” su un cartello anche se magari c’è scritto “POST”». A parlare con Linkiesta è Edoardo Galatola, ingegnere laureato all’Università di Pisa e responsabile sicurezza FIAB. «C’è un ampia letteratura sull’argomento, che va da Trafficologia. Perché le donne causano ingorghi e gli uomini incidenti mortali – il libro di Tom Vanderbilt, in Italia edito da Rizzoli – fino a uno studio della London School of Hygiene and Tropical Medicine sull’introduzione delle Zone 30 (reti stradali con limiti imposti a 30 km/h) tra il 1986 e il 2006 a Londra e nel Regno Unito».
Il vantaggio dell’effetto “safety in numbers” è che il numero assoluto dei decessi diminuisce, lo svantaggio è che il fenomeno è autoindotto, non dipende cioè dalle scelte politiche sulla mobilità. A riprova di ciò basti osservare che il 48 per cento dei ciclisti che subiscono un incidente a Milano se lo procurano da soli, contro il 17 per cento di quelli della Provincia di Milano: si potrebbe pensare a distrazionidi chi usa la bicicletta in città, ma in realtà il dato evidenzia le criticità della viabilità milanese. «A mio giudizio», prosegue Galatola, «c’è stato un miglioramento non collegato alle attese. Alcune operazioni meritano un giudizio positivo come Area C o un diversa politica dei parcheggi. Ma attenzione, se si decide di investire un milione di euro nella costruzione di un tratto di ciclabile e poi non si cambia l’organizzazione del traffico allora i risultati sono quasi nulli».
L’esempio da seguire? Seoul e la Corea del sud. In vent’anni hanno abbattuto del 32 per cento annuo il numero delle vittime, semplicemente ridisegnando le strade
Per salvare la vita ai ciclisti bisogna guardare alla Corea del Sud e a Seoul, dove negli ultimi due decenni hanno abbattuto il numero delle vittime delle strada a un ritmo del 32 per cento l’anno semplicemente ridisegnando le strade. «Anche in Italia il ritmo è positivo, nel decennio 2001-2010 abbiamo ridotto la mortalità sulle strade del 40%, ma il successo è quasi tutto a carico delle quattro ruote. Effetti concreti si potranno ottenere applicando i programmi quadro comunitari, l’Agenda Europea 2011-2020». Per farlo, avverte il responsabile sicurezza di FIAB, non dobbiamo affidarci alle facili soluzioni. «Il casco obbligatorio viene presentato come panacea di tutti i mali, invece protegge solo dagli impatti a velocità ridottissime». E per quanto riguarda Milano «c’è ancora l’idea di risolvere con ciclabili, cartelli o semafori, quando bisognerebbe pensare ad arterie a bassa velocità di percorrenza».
Basta con le soluzioni semplici: casco obbligatorio e piste ciclabili non risolvono i problemi. Bisogna pensare alle arterie a bassa velocità di percorrenza
Le critiche vanno mosse anche gli uffici di statistica e all’organizzazione dell’amministrazione pubblica, che non aiuta la comprensione del fenomeno. «I dati vengono raccolti nei collettori, prima erano di competenza della Provincia, adesso della Regione che poi li trasferisce all’Istat. Solo in questo passaggio alcuni numeri si perdono». All’Istat si lavora quasi esclusivamente su dati aggregati, senza attenzione alla dimensione locale che è proprio quella che permette di capire se una politica comunale ha portato giovamento o meno. «Questo avviene anche per via di norme assurde, come la privacy che impedisce di conoscere il collocamento geografico preciso degli incidenti e mappare le zone rosse, quelle ad alto rischio».
MESSAGGIO PROMOZIONALE
In altri casi invece si tratta di errori che creano un clima di allarmismo. «C’è una sorta di pensiero unico all’Istat. Si lavora su dati già elaborati e non da analizzare, si grida alla bicicletta come al mezzo più pericoloso prendendo in considerazione l’indice di mortalità, cioè il numero di morti su 100 incidenti. Un indice che preso così non significa molto, va correlato ad altre informazioni come il numero di km percorsi».
Un peccato che fra allarmismi, metodologie di ricerca discutibili e arroccamento su posizioni politiche non si sviluppi un dibattito sulla bicicletta come una delle frecce da scoccare nella mobilità urbana del futuro. Basti pensare che se in tutte le città europee si pedalasse come a Copenaghen, si creerebbero ogni anno 76.600 posti di lavoro e si salverebbe la vita a 10mila persone. Lo scrive l’Ufficio Regionale Europeo dell’OMS, ripreso nell’ultimo report di LegambienteA Bi Ci. Non solo, «si potrebbero abbattere i costi complessivi dell’impatto ambientale e sanitario del traffico che possono raggiungere il 4% del PIL di un Paese».