La crisi greca e quella ucraina sono differenti e separate, ma allo stesso tempo simili e legate. La prima è una crisi economica diventata politica e geopolitica, la seconda è politica e geopolitica ed è diventata anche economica. Il tracollo finanziario di Atene ha aperto scenari che, dalla possibilità di un’uscita dall’Euro per la sola Grecia, si sono allargati allo sfilacciamento non solo dell’intera Eurozona, ma di tutta l’Unione Europea. Ventitré anni dopo la firma dei Trattati di Maastricht, sedici dopo l’introduzione della Moneta unica, è bastato l’arrivo sull’Egeo di un governo sui generis per far quasi crollare il castello le cui basi sono state messe dopo la fine della Guerra fredda.
Angela Merkel ha rischiato di distruggere quello che il suo mentore Helmut Kohl aveva avviato
Semplificando, forse nemmeno troppo: Angela Merkel ha rischiato di distruggere quello che il suo mentore Helmut Kohl aveva avviato. Se il cancelliere della riunificazione tedesca aveva ancorato la Germania all’Europa, accelerando e pilotando anche il processo di integrazione economica continentale, la donna più potente del mondo è arrivata dal Kanzleramt a un passo dal condurre il treno europeo a schiantarsi contro il Partenone. E se non oggi, potrebbe essere domani, con le relative conseguenze: Grecia via dall’Ue e dalla Nato, alleanza economica e geopolitica con il Cremlino, gas dalla Siberia e basi militari russe nel Mediterraneo. Effetto domino e stessa sorte per Cipro; scombussolamenti in Europa centrale diretti da Mosca, tra chi è già dentro l’Unione come l’Ungheria e chi ne vorrebbe entrare, dalla Moldavia all’Ucraina.
Si tratta di uno scenario al limite, del classico worst case, ma non di fantapolitica. Soprattutto se alla questione greca si sovrappone quella ucraina. A Kiev un duello politico interno si è prima tramutato in un conflitto civile e in una battaglia internazionale, poi in una guerra economica tra Russia e Occidente, con sanzioni e controsanzioni che fanno male a tutti.
L’Ucraina è di fatto già in default e il conto è destinato ad essere diviso tra Bruxelles e Washington
Senza contare che l’Ucraina è di fatto già in default, il conto è destinato a essere diviso tra Bruxelles e Washington (Casa Bianca e Fondo monetario internazionale). Ventiquattro anni dopo l’indipendenza da Mosca, l’Ucraina è diventata il teatro di uno scontro geopolitico che ha mandato in fumo il sogno di quella “casa comune europea” che sempre Kohl, insieme a Mikhail Gorbaciov, aveva in mente appena dopo il crollo del Muro di Berlino. Anche in questo caso la Germania è protagonista, con Frau Merkel a guidare la locomotiva europea sul percorso antirusso disegnato Oltreoceano. È chiaro che le soluzioni delle due crisi passano dunque da Berlino, ma se per quella greca le cose sono adesso relativamente semplici, per quella ucraina la cancelliera non può fare a meno di Vladimir Putin.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
E se Mosca è parte del problema, è comunque fondamentale per uscire dal tunnel nel quale non solo Kiev, ma anche Bruxelles e Washington si sono infilati. Proprio come con Atene, Berlino si è temporaneamente impuntata innescando una spirale che fa il gioco più dei falchi che svolazzano intorno alla Casa Bianca e al Cremlino, che non all’Europa. Il segretario alla Difesa Ashton Carter ha confermato che gli Stati Uniti dislocheranno armamenti pesanti nel centro ed est Europa per rafforzare il fianco orientale della Nato, dai Paesi Baltici alla Polonia, dalla Bulgaria alla Romania. Poco prima l’ambasciatore russo a Stoccolma, Victor Tatarintsev, ha consigliato alla Svezia di evitare di agganciarsi all’Alleanza Atlantica, minacciando conseguenze come l’orientamento dei missili balistici verso la Scandinavia.
Nel Donbass il conflitto è semi-congelato e l’instabilità giova a molti
Il messaggio è stato trasversale anche per la Finlandia, nel caso a Helsinki qualcuno pensasse di fare altrettanto. Tra i sempre più frequenti tuoni di Nato e Russia, è la Germania che deve comunque cercare la mediazione. E a Berlino è affidato anche il compito di tenere sotto controllo la scacchiera ucraina, prima che si ribalti del tutto.
Nel Donbass il conflitto è semi-congelato e l’instabilità giova a molti: al Cremlino che continua a condizionare l’Ucraina, al governo di Kiev, imprigionato nei gangli oligarchici e restio alle riforme, che ha una scusa per l’immobilità di fronte a un elettorato sempre più disilluso e ostile, agli Usa che rafforzano la presenza militare in Europa. A perdere, oltre ai poveri ucraini (tutti, non solo quelli del sudest occupato dai separatisti), c’è l’Europa, con il sangue che scorre nel giardino di casa e un’economia segnata dai riflessi negativi delle sanzioni. Difficile tirarsene fuori, perché, come per quella greca, anche nella crisi ucraina le posizioni si sono ideologizzate a tal punto che è difficile per tutti fare un passo indietro.
Tra Europa e il Cremlino gli spazi di manovra sono più ampi rispetto a quelli tra Russia e Stati Uniti
Se tra Russia e Stati Uniti le speranze di accomodamento sono vane, almeno sul breve periodo, tra Europa e il Cremlino gli spazi di manovra sono già più ampi, anche perché dallo stesso Putin i segnali in questa direzione sono già arrivati. Al Kanzleramt sinora sembrano aver fatto però più che gli interessi tedeschi o europei quelli americani: l’appiattimento della cancelliera sulla linea di Washington non piace a molti e più volte i partner di governo socialdemocratici hanno dato segno negli scorsi mesi di voler riequilibrare il discorso con Mosca, sommessamente, ma con regolarità.
Il vice-cancelliere Sigmar Gabriel ha parlato addirittura di federalizzazione dell’Ucraina, e il presidente del Forum Russo-Tedesco Mathias Platzek di legalizzare persino l’annessione della Crimea. Per ultimo il governatore regionale del Meclemburgo Erwin Sellering è partito questa settimana in direzione San Pietroburgo con una folta delegazione di rappresentanti della politica e dell’economia per raccogliere un po’ di cocci frantumati dalle sanzioni. Angela Merkel ha sempre sostenuto che la sicurezza in Europa si può costruire solo con la Russia e non contro la Russia. Forse dovrebbe parlarne seriamente non solo con l’inquilino del Cremlino, ma anche con chi da Washington sta pericolosamente rilanciando i toni e i propositi della Guerra fredda. Chiusa la parentesi greca, il compito sarà questo.