Cronache dal fondo d’Italia, dove (r)accogliere profughi è cosa normale

Reportage

AUGUSTA (SR) Quattrocentocinquanta eritrei improvvisamente escono dai tendoni allestiti nel porto di Augusta, in provincia di Siracusa. E, davanti allo sguardo sgomento dei soccorritori, si mettono a correre, veloci, come se dovessero gareggiare per la corsa dei cento metri. E invece la loro meta è saltare il muro, i cancelli del porto e raggiungere Catania, la stazione ferroviaria, Milano e poi la Germania. Fermati, da carabinieri e polizia, in 40 sono riusciti a prendere la via della libertà (di scelta). Nel frattempo un gruppo di siriani tirano fuori dai bagagli portati sui barconi strumenti musicali, flauti, violini per festeggiare, omaggiare i loro salvatori, perché ce l’hanno fatta. Bastano queste due immagini-metafora a spiegare il nuovo esodo e di come viene affrontato da chi sta in trincea. Anche nel 2015.

Ormai profughi e migranti sbarcati stanno superando la soglia, inaudita, di 50mila persone in soli cinque mesi, e nelle capitanerie dei porti orientali della Sicilia i rovelli sono di altra natura

Se a Bruxelles si litiga e si cerca di affondare l’agenda immigrazione che prevede una ripartizione più equa in Europa dei profughi, per ragioni di politica interna dei paesi membri della Ue, se nelle Regioni del nord Italia si solleva la polvere della demagogia per alimentare il disagio (reale) dell’onda anomala sempre più grossa dei profughi – per ragioni di bassa lega della Lega Nord – quaggiù nei porti orientali della Sicilia, si sta in trincea. E si lavora come sempre senza sosta e con molta fantasia. Con quel senso di ineluttabilità dipinto sui volti di poliziotti, carabinieri, ufficiali dei corpi marini, volontari della protezione civile, che sanno che è così e basta. Che questo esodo non si può fermare con gli slogan. E non hanno tempo di affidarsi ai cavilli etici o politici. Del resto, in Sicilia ora ci sono 17mila immigrati, cioè 260 persone ogni 100mila abitanti. Mentre in Lombardia le cifre sono più basse: 60 ogni 100mila (fonte Caritas).

Ormai, a conti fatti, profughi e migranti sbarcati stanno superando la soglia, inaudita, di 50mila persone in soli cinque mesi, e nelle capitanerie dei porti orientali della Sicilia i rovelli sono di altra natura. Devono capire chi sono gli scafisti, l’equipaggio dei trafficanti, tracciare le nuove rotte, dare risposte immediate ai profughi e lottare contro la burocrazia italiana ed europea, che continua a moltiplicare centrali operative. Affidate sia alla Guardia Costiera, sia alla Marina Militare, sia alla Guardia di Finanza, che, con le loro operazioni di soccorso si intrecciano, si scontrano e spesso bloccano il flusso delle informazioni. Complicando il lavoro quotidiano di chi nei porti, dopo gli sbarchi, deve fare le indagini, che assomigliano alle fatiche di Sisifo.

Al porto di Augusta dall’inizio del 2015 sono sbarcati 10mila migranti. Da una nave della Marina Militare belga, Nave Godetia, mandata a pattugliare il Mediterraneo per conto della missione Triton, sono appena scesi 213 siriani, che hanno pagato 5mila euro a testa per lasciare la Turchia.

Il membri del Gicic, il Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina, la task force della procura di Siracusa, guidata dal commissario Carlo Parini, ascoltano le deposizioni dei profughi che hanno accettato di testimoniare. Guardano sullo schermo del pc la foto dei caicco partito dalla Turchia e, calcolate latitudine e longitudine, arrivano alla conclusione che i migranti sono stati in mare sette giorni. E che sono andati alla deriva per due giorni verso il Canale di Sicilia, con un pilota automatico innescato prima della fuga da scafisti e trafficanti, che li hanno abbandonati per tornare ad Antalya per prendere un nuovo carico di merce umana. Perché i siriani, più facoltosi, preferiscono ora affidarsi a mezzi sicuri, e non rischiare di morire come accade spesso se si parte dalla Libia, dove le carrette sono fatiscenti, vengono stipate di persone, e rischiano ogni volta di capovolgersi.

Il motivo della partenza è sempre lo stesso: la guerra civile. E così gli interrogatori sembrano dei quiz, che non aiutano a risolvere l’enigma di questo esodo, che assomiglia al gioco dell’oca

Si riaffacciano quindi le barche fantasma lanciate con pilota automatico verso le nostre coste, creando un allarme di sicurezza. E si è riattivata la rotta Turchia-Italia. Così come, nella distrazione generale, nonostante la rassicurazioni del governo egiziano, i pescatori- trafficanti di Alessandria d’Egitto, hanno rimesso in mare i loro pescherecci. Mentre dalla Libia arrivano i più disgraziati, eritrei e subsahariani, compresi quelli che non volevano venire in Europa, ma ora scappano dalla guerra in Libia, che era la loro meta per trovare un lavoro, rimanere per guadagnare un po’ di soldi e poi tornare a casa.

Dentro la capitaneria di porto Yusuf, siriano- palestinese, fa un racconto agli interpreti arabi che è pieno di buchi neri. L’organizzatore del suo viaggio ha un nome generico: Abu Mohamed (il padre di Mohamed) i mesi passati in Turchia un vuoto che non vuole colmare, il viaggio dalla Siria confuso. Il motivo della partenza è sempre lo stesso: la guerra civile. E così gli interrogatori sembrano dei quiz, che non aiutano a risolvere l’enigma di questo esodo, che assomiglia al gioco dell’oca. Poliziotti a carabinieri digitano verbali su verbali, gli interpreti scuotono la testa per dire che stasera non ci sono scafisti da arrestare e il commissario Parini osserva: «I due scafisti egiziani, presi due giorni fa, erano cognati e li avevamo arrestati in passato. Il loro arrivo rivela un’attività preoccupante su cui stiamo indagando da aprile per capire come si sta riorganizzando la rete di trafficanti, in Egitto, rimasta silente per mesi». 

Una giovane neolaureata di Damasco sorride e chiede a uno dei suoi salvatori di farsi un selfie con lui. «Ti mando la fotografia, appena arrivo in Germania»

Intanto pochi giorni fa sono state seppellite le ultime salme di 17 cadaveri arrivati il 31 maggio ad Augusta: migranti morti annegati su un gommone trovato quasi affondato, corpi tumefatti e sfigurati e rimasti senza nome in cimiteri senza lapidi né fiori per ricordarli. Ma stavolta i profughi scesi al porto sono sopratutto siriani e, in barba all’Europa che non vuole accollarsi l’accoglienza dei migranti, si rifiutano di farsi identificare e aspettano il momento buono per andarsene al Nord. Se non riescono a scappare dal porto, fuggiranno poi dai centri di accoglienza.

E se a Milano si solleva molta polvere per i profughi costretti a dormire in stazione Centrale, qui nessuno fa caso ai tendoni che ospitano quelli che non hanno ancora un posto letto. I poliziotti entrano in confidenza con i profughi, cercano di capire chi li può aiutare nell’attività investigativa per ricostruire cosa è accaduto nel viaggio e risalire la filiera dei trafficanti. Un carabiniere esausto alza la voce con un interprete che, al ventesimo verbale, va in confusione. E sovrappone le informazioni di oggi con quelle del giorno precedente. All’esterno dell’ufficio spoglio della capitaneria di porto, un ufficiale della Guardia Costiera, sorride stanco, e dice: «Ho dovuto registrare la deposizione di un palestinese, che ha parlato per 40 minuti. Voleva che arrestassimo tutti gli scafisti, perché era stato maltrattato. Un racconto talmente dettagliato che alla fine gli ho chiesto se era un romanziere», scherza. 

E il commissario Parini si chiede se quel siriano ottuagenario partito in taxi da Siracusa con la famiglia sarà arrivato a destinazione. Oggi, coi siriani, che non innescano mai conflitti con migranti di altre etnie, l’atmosfera è più rilassata. Una giovane neolaureata di Damasco sorride e chiede a uno dei suoi salvatori di farsi un selfie con lui. «Ti mando la fotografia, appena arrivo in Germania», promette in inglese fluente, con un’espressione piena di gratitudine. Dai tendoni arriva l’eco di un nota di un violino. L’aria è tiepida, le procedure dello sbarco sono finite e alle 11 di sera la task force mista del Gicic lascia il porto di Augusta. Si ricomincia domani. Con fatica, poche risorse e molto fatalismo. Perché lo sanno tutti, quaggiù, che anche l’estate del 2015 sarà lunga. Perché per chi vive in trincea e gestisce l’esodo umanitario, sa che nessuno potrà mai fermarlo.

Tutte le immagini sono di: Maurizio Longobardi

@GiudiciCristina

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