Dal 1946 siamo stati per decenni una nazione ai primi posti nel mondo per partecipazione al voto. Un record di “qualità democratica” che anno dopo anno stiamo erodendo e che rappresenta una delle spie del buon funzionamento del sistema politico e della società nel suo complesso. Complice anche una scelta di data per il voto certamente non felice (agli italiani togliete tutto, ma non il gusto del ponte vacanziero), queste elezioni regionali fanno, però, registrare un rilevante aumento del fenomeno dell’astensionismo.
Il record negativo di quest’anno spetta alla Toscana – patria un tempo, insieme alla Emilia Romagna, del civismo democratico – con il 48,2% di votanti, in netto calo rispetto al 60,7% delle regionali 2010 e anche al 66.7% delle europee 2014 e il 79.0% delle politiche 2013 (dati Senato). Anche le Marche rimangono sotto la soglia della metà dei votanti: 49,8% contro il 62,8% del 2010 (65,6% nel 2014 e 79,5% nel 2013).
Il record negativo di quest’anno spetta alla Toscana – patria un tempo insieme alla Emilia Romagna del civismo democratico – con il 48,2% di votanti, in netto calo rispetto al 60,7% delle regionali 2010
Appena sopra il 50 per cento, ritroviamo la Liguria con il 50,7% (60,9% nel 2010, 60,7% nel 2014 e il 75% nel 2013), la Puglia con il 51,1% (63,2% – 51,5% – 69,9%) e la Campania con il 51,9% (63,0% – 51,1% – 67,4%). Meglio, invece, si registra in Umbria con il 55,4% anche se cinque anni fa i votanti erano stati il 65,4% (70,5% lo scorso anno e il 79,1% nel 2013). Il record di presenza, infine, spetta al Veneto che raggiunge il 66,5%, seppur in calo rispetto al dato del 2010 (66,5%), del 2014 (63,9%) e del 2013 (81,6%).
Ieri si è votato anche per le comunali in 5.347 seggi e l’affluenza si è attestata sul 64,9% rispetto al precedente dato del 73,5%. Anche nelle consultazioni più vicine all’elettore, quindi, si segnala un trend negativo per i votanti.
Difficile, in assenza di una più puntuale analisi dei flussi, determinare chi ha pagato maggiormente dazio all’astensionismo, anche se in alcune regioni – in particolare la Liguria – l’incrocio dei dati delle diverse tornate elettorali porterebbe ad individuare nel Pd e nel centro-sinistra i soggetti maggiormente colpiti dal virus astensionista.
Una malattia che colpisce indubbiamente le democrazie mature – si pensi ai livelli di partecipazione al voto delle ultime elezioni europee in molte nazioni del Vecchio Continente – ma che rappresenta per l’Italia un fattore grave di disgregazione del tessuto democratico nazionale e della fiducia dei cittadini elettori nella politica e nelle istituzioni, su cui sarebbe necessario soffermarsi maggiormente.
Come capita all’indomani di ogni elezione, invece, dopo i primi allarmati commenti, l’arrivo delle tabelle dei voti validi e delle percentuali travolge tutti e tutti, salvo poi ritrovarsi la volta successiva a preoccuparsi per la fotografia del distacco crescente tra elettori e partiti.
Al tasso di partecipazione alle urne non hanno certamente giovato i recenti e ripetuti scandali per rimborsi spese gonfiati e altre ruberie che hanno investito numerosi consigli regionali, al punto che molti cittadini si stanno interrogando sulla utilità stessa delle regioni a 45 anni dalla loro istituzione.
Un esercizio sano sarebbe, invece, quello di non valutare l’andamento di un partito o di un candidato presidente/sindaco sulla base della percentuale di voti validi ottenuti, ma, al contrario, mettere a confronto i risultati in termini di voti assoluti in quella elezione con quelli – sempre espressi in voti e non in percentuale – delle precedenti consultazioni.
In queste regionali, ad esempio, così facendo si andrebbero ad evidenziare per molti partiti vere e proprie emorragie di consensi, mentre il raffronto percentuale finisce troppe volte per fungere da anestetico: allevia il dolore, ma non aiuta a sconfiggere la malattia chiamata disaffezione al voto, un virus assai pericoloso per una democrazia.
* Senatore del Partito Democratico