Il nome sulla rubrica dell’iPhone di Elaine è Guy. Come “tizio” o come nome proprio abbastanza generico da non attirare l’attenzione scorrendo verso il basso. Risponde sempre nello stesso modo: «Come va?», e fa molta attenzione a non ripetere l’indirizzo. Di solito taglia corto, dice: «Posso essere lì in un quarto d’ora, venti minuti, mezz’ora al massimo», dipende da dove si trova al momento della chiamata e che disponibilità ha. È efficace, efficiente e discreto. Sostiene di consegnare in tutta la città ma Elaine sospetta che si limiti a un paio di quartieri di Brooklyn e che cerchi di darsi un tono. È bianco, serio e impaziente.
Parlare di erba a New York sta diventando sempre più facile e sempre meno una questione di appartenenza etnica. Dopo il successo delle campagne di liberalizzazione in molti Stati del Paese, sembra che tutti stiano cominciando ad abituarsi all’esistenza di ciò che prima ignoravano, tenevano nascosto o facevano finta di non conoscere. Il Guy, che lo si voglia chiamare con il suo vero nome o con quello che si è dato lui, corre da una parte all’altra, suona ai campanelli, sale al piano, prende i soldi e se ne va lasciandosi dietro il motivo della sua visita. È alternativamente una figura romantica e un elemento di passaggio: come il ragazzo della pizza a domicilio o i cinesi sui motorini elettrici che non si fermano mai ai semafori e svicolano tra i pedoni sui marciapiedi. C’è chi lo aspetta con impazienza e chi con serenità, c’è chi lo chiama almeno una volta a settimana e chi solo quando ha ospiti. Chi ancora pensa al pericolo e chi invece non crede davvero che ci sia da aver paura. In ogni caso ci sono delle regole, la prima è la discrezione. «Niente nomi falsi, niente telefonate anonime», altrimenti non risponde. Consegna in bustine sigillate di dimensioni definite, il prezzo varia a seconda della qualità e naturalmente del peso, ma non c’è un listino. Anche se i tempi stanno cambiando e se in molti preferiscono non scendere più agli angoli delle strade, vista la comodità delle consegne a domicilio, il sottinteso resta per tutti lo stesso: bisogna fare a fidarsi.
Lo scorso autunno, HBO ha ordinato sei puntate di una delle Web Series meglio confezionate e più seguite del 2014, quella che Emily Nussbaum ha definito l’apice della Online Indie Television: High Maintenance. Si suppone che arriverà sulla tv via cavo nel formato tipico di venti minuti a episodio, o qualcosina di più, ma sul Web è costituita da micro-episodi di cinque, sei o sette minuti l’uno distribuiti in pacchetti da tre. Confezioni sigillate, proprio come la materia che tratta. Curati, ben scritti e girati in altissima qualità. Qui il Guy porta la faccia e la barba ruvida, definita “Bushwick Beard” non a caso, di Ben Sinclair — già visto in 30 Rock, per esempio, ma che ultimamente rappresenta la quintessenza dell’Indie Brooklyniano, anche e soprattutto per essersi inventato High Maintenance assieme a sua moglie e direttrice del casting Katja Blichfield.
È la versione moderna del vizio da niente, dell’alcol e dei sigari fumati in ufficio
C’è qualcosa di giusto nel rappresentare la generazione dei trentenni americani di oggi, affezionata a una dimensione familiare che supplisce all’assenza di certezze professionali, contemporaneamente perfettamente orientata dal punto di vista creativo e alla deriva per quanto riguarda le certezze lavorative, attraverso il suo pot dealer. È la versione moderna del vizio da niente, dell’alcol e dei sigari fumati in ufficio. Il tizio che arriva sulla porta delle vite di tutti e dà un’occhiata dentro giusto per essere sicuro di non finire nei guai. Sinclair, che nella serie non ha un nome, come è corretto che sia, è la prima persona di un tipo umano contemporaneamente innominale e informale. Sfaccettato e conformista. Nella puntata intitolata Trixie, la vicenda è quella di una coppia che affitta le camere del piccolo appartamento in cui abita su Airbnb, trovandosi a dover combattere contro vari pessimi elementi in visita, incapaci di rispettare gli spazi, le esigenze e i vizi altrui. Dipinge una delle tante situazioni tipiche che coinvolgono i trentenni a New York: il compromesso tra l’arrotondare lo stipendio e accettare l’invasività degli estranei. L’abitudine che sta riempiendo i quartieri residenziali di turisti come una specie infestante, ma concedendo un po’ di respiro a chi non potrebbe permettersi una spesa biologica a settimana.
Il Guy osserva, non interviene. Episodio dopo episodio, definisce la sua generazione di spettatori passando per il loro rapporto con la società con realismo e una precisione chirurgica. Non fornisce soluzioni perché non ne ha e non se ne trovano in quello che consegna. Però fa da collante, da trait d’union per un intervallo di età che si trova sempre in mezzo: tra il successo e l’ignoto, tra gli ideali e la totale assenza di uno scopo, tra la piaga delle droghe pesanti e lo sfizio della droga leggera. Niente di male ma nemmeno niente di bene, la fotografia di un momento senza la pretesa di esprimere un giudizio. Che non è superficialità, solo assenza di un piano di profondità.
Quinn vive a Chinatown in un monolocale scricchiolante sopra uno dei posti più famosi al mondo per i dumpling al brodo di carne. Il suo Guy si chiama Jack, ma sicuramente non è il suo vero nome. Ci sono volte in cui si ferma a chiacchierare per ore e racconta un sacco di bugie, alcune servono a far sì che Quinn non entri troppo in confidenza, altre a sollevarlo dall’idea di essere solo un dealer. Altre ancora a soddisfare il suo egocentrismo. Sembra una brava persona ma fuma troppo e forse è questo che non gli permette di fare un passo avanti nella sua carriera di sceneggiatore televisivo.
In ogni puntata di High Maintenance, il Guy lascia che siano i clienti ad aprirsi a lui, piuttosto che imporsi come spalla su cui piangere o compagno di fumate. La serie approfondisce da sola e in pochissimo spazio tutte le sfaccettature che può contenere una generazione come quella dei trentenni di oggi e una città come New York. C’è un comico che non riesce a superare lo shock di un evento violento e una coppia di coinquilini egotici che comprano l’erba per scambiarla con la cocaina. C’è un depresso, solitario, sovrappeso e accumulatore compulsivo che usa le consegne a domicilio per rimpiazzare la vita sociale e l’assistente di un pezzo grosso della moda, frustrata dal proprio lavoro e incapace di gestire la propria autonomia. Ci sono le biciclette, i taxi e le auto a noleggio, i Mac, le camicie a quadri e l’antipatia degli hipster. Tutti ripongono abbastanza fiducia nel Guy da lasciarlo entrare e tutti sanno che non c’è una vera alternativa a questa fiducia, unica salvezza dalla perdita di ogni appiglio.
High Maintenance è più sincero di Weed in merito al rapporto con l’erba — che non è più il segreto inconfessabile di una comunità, ma l’abitudine di una generazione — e più affidabile di Girls riguardo al rapporto con New York — che non è ancora la città di tutti, ma è già la città che tutti vorrebbero abitare, se non altro per semplicità. L’apertura verso la liberalizzazione della marijuana non significa soltanto riconoscere l’inconsistenza di un problema che non lo è mai stato, ma finalmente restituire a una generazione il suo diritto al vizio. High Maintenance è la normalizzazione del sistema, che solleva dai sensi di colpa, autorizza alla semplicità e consegna ai trentenni una consuetudine per la prima volta.