C’è la Grande Depressione, quella della miseria, raccontata da John Steinbeck, e c’è la depressione, intesa come “stato di prostrazione fisica e, più spesso, psichica” (Treccani). E anche se nella percezione comune quest’ultima viene considerata una classica malattia dell’Occidente opulento, quasi fosse una crisi da eccesso di ricchezza, secondo la scienza sono proprio povertà e sottosviluppo l’habitat naturale della patologia, che, non a caso, è ancora più diffusa tra i cosiddetti developing countries.
Già nel 2013 uno studio dell’università del Queensland, in Australia, pubblicato sulla rivista PLOS Medicine, aveva analizzato la prevalenza, l’incidenza e la durata della depressione nelle varie aree geografiche del pianeta. Il Paese più depresso era risultato l’Afghanistan, ma, in generale, questo tasso era stato stimato alto in Medio Oriente, Nordafrica, Africa sub-sahariana, Europa dell’Est e zona caraibica. Al contrario, i livelli erano inferiori in Estremo Oriente, Oceania e Sud-Est asiatico.
Ora una ricerca dell’università di Lovanio, citata dalla rivista americana Foreign Affairs, avvalora questa tesi. Una meta-analisi di 56 studi epidemiologici, compiuta dall’ateneo belga, rivela che esiste un’associazione tra i livelli socio-economici più bassi e la depressione e che nei Paesi meno sviluppati le patologie psichiche, accentuate da povertà e conflitti, politici o socioeconomici, sono più diffuse che altrove. Per fare un esempio, in uno Stato come l’Uganda, che ha patito una lunga guerra civile e ha visto una diffusione epidemica dell’Hiv, il tasso è altissimo e oscilla tra il 21 e il 25 per cento.
Fuori dall’Occidente, i malati non ricevono un trattamento adeguato. Nei Paesi in via di sviluppo l’ottanta per cento delle persone che soffrono di depressione non viene curato
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), la depressione è “la causa principale di disabilità” e colpisce ben 350 milioni di persone. Un peso psicologico, con ricadute, oltretutto, di natura economica. Questa malattia, infatti, inibisce la capacità di una persona di essere attiva, per cui curare la depressione significa migliorare la produttività. Ancora l’Uganda: qui uno studio, chiamato StrongMinds, ha rivelato che le terapie di gruppo per donne depresse hanno migliorato le loro capacità di intraprendere attività economiche e di accumulare risparmi. Un progetto in India, MANAS, che ha combinato cure mediche e psicoterapia, è riuscito ad aumentare il numero di giorni lavorativi dei pazienti che vi hanno preso parte, costretti spesso ad assentarsi a causa della loro condizione clinica.
Il problema è che, fuori dall’Occidente, i malati non ricevono un trattamento adeguato. Nei Paesi in via di sviluppo l’ottanta per cento delle persone che soffrono di depressione non viene curato. Da una parte, ci sono barriere culturali, che impediscono di associare questa patologia a determinati comportamenti. Dall’altra mancano gli specialisti del settore: nei Paesi ad alto reddito ci sono 10,5 psichiatri ogni 100.000 persone, in quelli meno sviluppati la media scende a 0,06. I casi limite sono il Ruanda, che ha solo 6 psichiatri professionisti in tutto il Paese, su una popolazione di quasi dodici milioni di persone, e il Ghana, che ne ha appena dodici, con un bacino di abitanti più che doppio, circa 27 milioni. In generale, nei developing countries ci sono pochi psichiatri nel settore pubblico e soprattutto nelle aree rurali. Eppure ce ne sarebbe un gran bisogno: nel 2014 il tema del World Mental Health Day (10 ottobre) dell’Oms era la schizofrenia ed uno dei Paesi più colpiti – è stato detto – è la Nigeria.
Sono le donne, soprattutto quelle meno istruite, gli anziani e i poveri a soffrire maggiormente di disordini di carattere mentale
C’è, però, una lenta ma costante inversione di marcia. Negli ultimi anni chi si occupa di malattie della psiche sta cercando di fare breccia nei Paesi in via di sviluppo, superando le barriere culturali e quelle economiche (non è facile operare con risorse limitate). In Zimbabwe, ad esempio, in una comunità della capitale, Harare, un progetto chiamato Friendship Bench cura una condizione che viene chiamata Kufungisisa (“pensare troppo”, nella lingua locale) e che in Occidente sarebbe considerata alla stregua della depressione. Questo stato mentale viene spesso somatizzato ed è associato a mal di testa e spossatezza. Friendship Bench cerca di ridurre l’ansia e di impegnare le persone in attività che consentano loro di superare questa condizione, come la produzione di borse fatte a mano, che generano anche un certo reddito.
Un piccolo progetto, certo, ma importante perché coinvolge non solo psichiatri, ma altri operatori sanitari, e mira a superare tutte le difficoltà nelle relazioni interpersonali. Ci sono donne sieropositive, ad esempio, che possono superare quello stigma sociale con cui spesso vengono marchiate. D’altronde, secondo una ricerca dell’Istituto britannico di psichiatria, rivolta a quattro Paesi non occidentali – lo stesso Zimbabwe, il Brasile, l’india e il Cile – sono proprio le donne, soprattutto quelle meno istruite, gli anziani e i poveri a soffrire maggiormente di disordini di carattere mentale.
La sfida, per gli esperti del settore, è quella di trasferire il modello di Friendship Bench su una scala più ampia. Se manca un numero adeguato di professionisti, devono essere le singole comunità a provvedere, sfruttando tutte le competenze interne. In ogni caso, affrontare i cosiddetti common mental disorders (CMDs) deve diventare una preoccupazione dei sistemi sanitari nazionali, anche nei Paesi meno sviluppati, tenendo conto, oltretutto, dell’impatto economico. In caso contrario, depressione e sottosviluppo continueranno a formare un circolo vizioso.