La discussione pubblica in tema di mercato del lavoro è spesso incentrata, in Italia ma non solo, su aspetti prettamente connessi al “diritto del lavoro”. Le regole contrattuali sono certamente importanti, sono la cornice generale cui ogni relazione contrattuale che riguardi il lavoro deve sottostare. Non va dimenticato, però, che il contenuto della prestazione lavorativa è fatto di competenze applicate a processi organizzativi e produttivi d’impresa. In ultima istanza, il livello e la dinamica della produttività del lavoro dipendono dalla dinamica delle relazioni contrattuali, dalla facilità di combinare un posto di lavoro libero con un lavoratore, ma anche dalla domanda e dall’offerta di competenze proveniente dal sistema produttivo. Un buon substrato di regole è certamente importantissimo, poiché permette ai due lati del mercato di “incontrarsi” – a un dato prezzo – in modo più o meno efficace a seconda della bontà delle stesse. Ma se – per ragioni strutturali – stessimo per caso vivendo un cambiamento nel contenuto stesso della domanda di competenze, non perfettamente accoppiato alle abilità dei lavoratori, almeno nel breve periodo, quando l’investimento iniziale in capitale umano può supporsi dato, ci troveremmo, in realtà, di fronte a una seconda causa di malfunzionamento del mercato del lavoro.
Incentrare la discussione solo sulla forma del contratto può far dimenticare che la crescita del lavoro non-standard potrebbe essere guidata più dal contenuto della prestazione lavorativa scambiata che dalle regole in sè
Incentrare la discussione di policy soltanto sulla forma del contratto, può indurre a dimenticare, per esempio, che la crescita del lavoro non-standard potrebbe essere guidata più dal contenuto della prestazione lavorativa scambiata, che dalle regole in sé. Esistono ragioni strutturali che causino una maggiore domanda di flessibilità nella relazione di lavoro? I contratti a tempo determinato o le partite IVA sono solo un sottoprodotto di regole contrattuali rigide, oppure nascondono anche un mutamento sostanziale nel contenuto del lavoro stesso? Senza rispondere a tale domanda, ogni intervento di politica economica finalizzato solo alla riscrittura delle norme generali che regolano le relazioni contrattuali rischia di essere una leva sbagliata o insufficiente, laddove invece un approccio più legato al contenuto di competenze del lavoro, hard e soft skills, aiuterebbe di certo a predisporre interventi più efficaci. Politiche più legate alla formazione, sia scolastica, sia professionale lungo tutto l’arco di vita, sarebbero in questo caso più efficaci di una sola riscrittura delle norme contrattuali.
Come sempre, le domande in campo di politica economica trovano di solito una risposta solo e soltanto nelle evidenze empiriche. Utilizzando i dati Eurostat fino al primo trimestre 2015, è possibile farsi un’idea sommaria sull’andamento del lavoro non-standard, e del contenuto implicito di competenze del lavoro netto creato o distrutto nel lungo periodo di crisi abbattutosi sul nostro paese.
Il grafico 1 mostra l’andamento dell’occupazione, dal 2011 ad oggi, per il lavoro standard e non-standard. Quest’ultimo è definito come la somma dei contratti a tempo determinato e delle partite IVA senza alcun dipendente. Di norma, andrebbero aggiunti anche i contratti a tempo indeterminato in part-time involontario, ovvero in qualche modo “subiti” dal lavoratore, che se potesse lavorerebbe più ore di quanto in realtà non faccia, ma i dati Eurostat pubblici non permettono, almeno a livello trimestrale, di incrociare tali informazioni. La misura del lavoro non-standard, così definita, è perciò da intendersi per difetto. Come si nota dal grafico, il contributo del lavoro non-standard, sia nella creazione sia nella distruzione netta di lavoro, è sproporzionato rispetto al lavoro standard a tempo indeterminato. Interessante notare, inoltre, come l’emorragia di posti lavoro abbia interessato anche il substrato delle piccolissime imprese italiane.
Grafico 1 – Cambiamento tendenziale nell’occupazione per tipo di lavoro (standard/non-standard)
Il piccolo aumento nel lavoro standard avutosi nel primo trimestre del 2015 è, almeno per ora, una briciola rispetto al contributo positivo alla crescita dell’occupazione del lavoro non-standard. In più, con una crescita dell’occupazione totale tendenziale vicina allo 0.5% annuo, la forte emorragia di lavoro subita nel 2012 e 2013 è lontanissima dall’essere invertita in positivo. Nel primo trimestre 2015 il livello dell’occupazione era ancora dell’1.6% più basso del primo trimestre 2011.
Il maggiore utilizzo di contratti stabili, anche grazie agli incentivi alle assunzioni, non ha mitigato il minor contributo dei contratti a tempo determinato e delle partite IVA, piuttosto “malmenate” dal nuovo regime dei minimi
Soffermandosi più specificamente, nel grafico 2, sulla dinamica del lavoro non-standard, si può facilmente notare come il contributo dei contratti a tempo determinato e delle partita IVA alla crescita/decrescita tendenziale, dalla fine del 2012, è da dividere più o meno a metà, sebbene nella prima fase di contrazione siano state soprattutto queste ultime a subire la maggiore perdita netta di occupati, mentre nella fase di leggera espansione siano stati i contratti a tempo determinato a contribuire di più alla crescita netta di lavoro non-standard. Interessante è anche la lieve diminuzione nel tasso di crescita tendenziale nel primo trimestre 2015, che spiega totalmente il cambiamento aggregato inferiore nel primo trimestre 2015. Il maggiore utilizzo di contratti stabili, anche grazie agli incentivi alle assunzioni, non ha mitigato il minor contributo dei contratti a tempo determinato e delle partite IVA, piuttosto “malmenate” dal nuovo regime di minimi. Risultato? Meno crescita occupazionale, in attesa degli effetti del Jobs Act vero e proprio.
La dinamica occupazionale del lavoro a tempo determinato e del lavoro imprenditoriale è presentata, rispettivamente, nei grafici 3 e 4. Da notare come la breve ripresa del 2010/2011 sia stata accompagnata da un aumento dell’incidenza dei contratti a brevissima durata, poi stabilizzatisi nel 2012, periodo in cui i contributi dei contratti di durata maggiore a un anno sono stati positivi, per poi sprofondare di nuovo nel 2013. Da notare, anche, come nel primo trimestre 2015 i contratti di durata superiore a un anno contribuiscano negativamente alla crescita totale. È, molto probabilmente, l’effetto indiretto delle trasformazioni in tempo indeterminato di contratti a tempo fisso, facilitate dagli incentivi.
Grafico 2 – Cambiamento tendenziale nell’occupazione del lavoro non-standard
Grafico 3 – Cambiamento tendenziale nell’occupazione del lavoro a tempo determinato
Per quanto riguarda il lavoro imprenditoriale e le collaborazioni in imprese familiari, si nota come il cambiamento tendenziale, nel primo trimestre 2015, sia ancora negativo, dopo un forte calo durante tutto il 2014. La parte finale della crisi ha evidentemente spazzato via molte piccolissime imprese marginali. Non vi è, per il momento, alcun ritorno in terreno positivo.
Grafico 4 – Cambiamento tendenziale nell’occupazione del lavoro a tempo determinato
Grafico 5 – Quote relative di lavoro standard e non-standard
Quali considerazioni finali, dunque, dopo quest’analisi? Ebbene, tenendo conto della diversa elasticità di risposta dell’occupazione standard e non-standard al ciclo economico, in realtà a livello aggregato poco è cambiato. Il grafico 5 mostra la quota relativa delle tipologie lavorative in tutto l’arco di tempo considerato: sono piatte come solo il mare Adriatico sa essere. Nella fase di distruzione netta d’impiego, il lavoro non-standard ha contribuito allo stesso modo che in quella di ripresa, lasciando inalterata la proporzione di questa tipologia di lavoro sul totale.
Nello stesso tempo, se ci soffermassimo meglio sul contenuto di competenze dei lavori creati o distrutti, come mostrato nel grafico 6, in realtà noteremmo che molto è cambiato, almeno da questo punto di vista, nel nostro mercato del lavoro. I dati mostrano il cambiamento cumulato dell’occupazione dal 2011 al 2015, per settore economico e contenuto di competenze del lavoratore, misurato secondo una tassonomia delle professioni che rispecchia il maggiore o minore grado di complessità e di specializzazione dei compiti lavorativi. In aggregato, dal 2011 in avanti si sta assistendo a una robusta polarizzazione nella creazione d’impiego: i lavori creati sono agli estremi della scala di competenze. Assistiamo, allo stesso tempo, a una creazione netta di lavoro non specializzato e di managers/professionisti, mentre le occupazioni mediane, fatte di colletti bianchi e operai specializzati hanno subito dal 2011 perdite consistenti, nell’ordine del 2.5 e del 12%! Una vera ecatombe, per la classe media italiana. Il trend di polarizzazione è certamente comune alla maggioranza di paesi OCSE, ma in Italia è associato a una fortissima distruzione di professioni mediane, probabilmente a causa della lunga crisi.
Grafico 6 – Cambiamento cumulato dell’occupazione, T12011-T12015, per settore economico e contenuto di competenze/professionalità
In più, i settori economici in cui sono stati creati posti di lavoro aggiuntivi nelle professioni più pagate sono i servizi finanziari e i servizi ad alta specializzazione alle imprese (ICT, data, accounting). La notizia è certamente positiva e riflette una transizione ben augurante verso attività ad alto contenuto tecnologico e di valore aggiunto. I colletti blu specializzati, invece, sono in diminuzione in quasi tutti i settori. Interessante notare come le attività legate al turismo, all’agro-alimentare (spesso presentate come il “Made in Italy”), ai servizi alla persona e i servizi non specializzati alle imprese abbiano contribuito positivamente alla creazione netta d’impiego, ma come quest’ultimo sia, nella sua stessa natura, poco specializzato e poco retribuito. È questo il Made in Italy che vogliamo, e che ogni giorno è propagandato come una panacea? Ci si lasci il beneficio del dubbio.
Di cosa preoccuparsi di più? Del lavoro non-standard in sè o del basso contenuto di competenze insite in tali occupazioni?
Di cosa, quindi, preoccuparsi di più? Del lavoro non-standard in sé, delle regole contrattuali che lo determinano, secondo molti, o del basso contenuto di competenze insite in tali occupazioni? È più importante il contratto o la paga bassa, variabile la cui varianza è spiegata per la maggior parte dalle professioni, dal loro grado insito di competenze, più che non dalla forma contrattuale? Probabilmente i due aspetti sono interrelati, ma il nostro sospetto è che il secondo – le competenze, la professionalità, il “cosa faccio al lavoro” – è più rilevante nell’ambiente economico attuale. Rivedere il modo in cui si approcciano le politiche del lavoro, in un paese che ha attraversato uno tsunami economico, in piena transizione da un paradigma a un altro, è, perciò, quanto mai urgente. Non basta discutere del cambiamento di norme introdotte dal comma 5 art. 8 del DPR tal dei tali.