Estratto da “Mare Monstrum” di Cristina Giudici
È sul foglio che mi ha consegnato Parini che ho letto quelle parole: «Papay we are see the rescued, na a successfull joining. Dongo is good to us, goodbby. God is powerful». Si tratta del messaggio di un ragazzo nigeriano, inviato con il cellulare alla famiglia, dopo essere sbarcato in Sicilia, riuscendo a raggiungere, stremato, ma vivo, Portopalo di Capo Passero. Il commissario Parini inizia il suo racconto, e io ho la sensazione che nuove immagini nere e angosciose inizieranno a scorrere nella mia mente.
In seguito alla segnalazione della Guardia costiera e del gruppo aeronavale della Guardia di finanza, viene intercettato un gommone a sud dell’Isola delle Correnti. A bordo ci sono cinquantanove clandestini. Allora li si chiamava così, “clandestini”, la parola “migranti” è stata introdotta in seguito, perché suona meglio, perché è più politicamente corretta, più rassicurante, perché forse ci aiuta a essere più indulgenti verso noi stessi, ad assolverci dal reato di indifferenza, dal peccato di impotenza verso questo esodo, che nessuno sa fermare né capire.
Li chiamavamo “clandestini”, ora li chiamiamo “migranti” perché suona meglio, è politicamente corretto e più rassicurante. Forse ci aiuta a essere più indulgenti verso noi stessi
Sono le nove di mattina, quando il gommone arriva a Portopalo di Capo Passero. È stipato di africani, in maggioranza nigeriani. Ci sono anche due minorenni, un adolescente e una bambina. Le donne hanno la pelle rossa, bruciata dal sole, che ne ha mutato la pigmentazione. I corpi degli uomini sono rattrappiti, sembrano quasi troppo bassi per essere nigeriani. Nella segnalazione delle autorità maltesi, che ancora una volta se ne sono lavate le mani, voltando la faccia dall’altra parte, affidando il soccorso agli italiani, si parla di un gommone con più di settanta persone a bordo. Eppure ne sono sbarcate solo cinquantanove. Al centro di accoglienza vengono piazzate alcune cimici per intercettare le conversazioni dei clandestini, e il commissario chiama una sua conoscenza: un’ex prostituta nigeriana, espulsa e poi rientrata in Italia, sottratta al racket della prostituzione e a nuove possibili espulsioni. Una delle tante conoscenze del GICIC, che ogni giorno chiamano per chiedere un rinnovo del permesso di soggiorno, un lavoro, un consiglio, un alloggio durante i processi in cui dovranno testimoniare…
Convocata a Siracusa, la nigeriana acconsente a dare una mano, per capire cos’è successo durante quel misterioso viaggio in mare: trascorre tre mesi nel centro di accoglienza, dove origlia i discorsi dei nigeriani, quando sussurrano fra loro, i volti ancora segnati dal sole, dalla pena. Il suo nome è Happy, “Felice”, un altro di quei paradossi da aggiustare nella mia mente. Negli atti del processo è indicata come interprete, ma lei, la conoscenza, in questa storia recita la parte di una specie di Aziz in gonnella, perché capisce e parla diversi dialetti nigeriani, ed è così in grado di cogliere il peso che opprime la coscienza di questi clandestini, arrivati stremati nelle acque limpide a sud dell’Isola delle Correnti.
Il commissario legge ad alta voce gli appunti che ha annotato a margine degli atti giudiziari, durante il processo. È incredibile come in quest’era digitale sia necessario leggere le note a margine, scritte a mano, per ricostruire una storia. Devo proprio raccontare a Barbara, un’amica appassionata di nuove tecnologie, che cosa accade fuori dalla Rete, in una piccola procura siciliana, dove l’evoluzione tecnologica si è fermata alle chiavette USB che il commissario tiene tutte mescolate in un sacchetto di plastica, e non si capisce mai come faccia a distinguerle tra loro. Mentre il commissario racconta, mi risuonano in testa le parole di quel messaggio, stampato a caratteri cubitali su un foglio diventato scuro.
Quel gommone si era trasformato in una nave di folli. Il branco dominante, vedendo i viveri che si razionavano e l’acqua che scarseggiava, aveva iniziato a gettare i più deboli in mare
Al centro di accoglienza, dove erano stati ospitati, quei corpi rattrappiti con il passare dei giorni sembravano “crescere”, allungarsi, tornando a mano a mano alla loro forma originaria. Dovevano essere stati per troppo tempo su un gommone stipato, rannicchiati per mancanza di spazio. Erano stati in viaggio, alla deriva, senza bussola per nove, forse undici giorni. Nessuno ha capito per quanto tempo, anche perché nei viaggi su carrette o gommoni la matematica è sempre un’opinione. I calcoli non tornano mai. I sopravvissuti, nel centro di accoglienza, discutono a lungo fra loro, senza sapere di essere intercettati, e decidono che non può finire così. Alcuni di loro scrivono una lettera ai carabinieri. Anche se i carabinieri, grazie a Happy, sanno giù tutto. La loro lettera inizia così: «In coscienza, non posso permettere che questi crimini rimangano impuniti…». E così si viene a scoprire che quel gommone si era trasformato in una sorta di nave di folli. I passeggeri si erano trovati divisi in due: il branco dominante, vedendo i viveri che si razionavano e l’acqua che scarseggiava, aveva iniziato a gettare i più deboli in mare.
Faccio fatica a decifrare qualcosa di così grande e terribile, io che vengo da un’esistenza normale, i cui unici imprevisti possono essere una malattia, un incidente, un lutto, la separazione di una coppia, le guerre domestiche tra familiari, la perdita di un posto di lavoro. Come posso immaginare davvero uno scenario simile? Non riesco a calarmi nei pensieri di uno scafista che, persa la rotta per la Sicilia, decide di condannare a morte i passeggeri. Né tantomeno immedesimarmi in Josephine, una donna gettata fuori bordo, che riesce a risalire e si salva legandosi alle taniche di benzina, per impedire che la tocchino ancora.
Il mio orizzonte non contempla quella violenza, provocata dal terrore del mare e cresciuta nei molti, troppi, giorni passati alla deriva. È il calcolo freddo o la pura follia, che li ha portati a tanto? C’era questo tizio che si chiamava come una marca di televisori, Sony, e che apparteneva al branco dominante: lui stabiliva chi doveva vivere e chi invece morire. E c’era un altro giovane africano, soprannominato il Pastore, che diceva di aver visto di notte una donna vestita di nero, una witch, una strega, che gli ordinava di gettare in mare i suoi compagni di viaggio. Come posso sapere che cosa è successo davvero nella loro mente? Eppure rimango qui, costretta a ricostruire nella mia testa ciò che il commissario mi racconta attraverso il mosaico di appunti, deposizioni e supposizioni.
Mi legge la testimonianza di un ragazzo che è partito con un amico d’infanzia, forse un suo compagno di scuola. Gli sta accanto senza sosta, sotto il sole che brucia i volti e secca le gole, per respingere la furia di chi può ucciderlo. «Mohamed non ha dormito per diverse notti, per essere sicuro che non gli accadesse nulla». Sento la voce del commissario come un bisbiglio in lontananza. Adesso lo vedo, quel ragazzo, che dopo tanti giorni passati a vegliare, stremato, si è assopito. E al risveglio, accecato dal sole, dapprima incapace di distinguere le sagome delle persone accanto a lui, cerca il suo compagno ma non lo trova. E intuisce in un attimo che, durante il suo breve sonno agitato dagli incubi, il suo migliore amico, cui era rimasto abbracciato per giorni, è stato scelto per un altro sacrificio umano.
I cattivi sono quelli che arrivano anche a bendare e legare una ragazza. A picchiare e gettare persone in mare, per poter sopravvivere. O forse perchè hanno perso il senno
Il commissario si interrompe. Sul suo volto appare quell’espressione che ormai mi è familiare, quella che significa «Ma ti rendi conto?». Ma stavolta è più cupa, sembra aver perso ogni velo di ironia. «Stop. Intervallo. Posso fumare una sigaretta?» Mi avvicino alla finestra dove si danno appuntamento tutti i fumatori del GICIC e, mentre guardo fuori, cerco di tenere separate le immagini di questo film dell’orrore dai miei ricordi personali. Sì, perché a Portopalo di Capo Passero ci sono stata anch’io. Due anni fa ho fatto tappa lì durante un vacanza, con Fabio. Un villaggio di pescatori che si trova più a sud di Tunisi: ce ne siamo innamorati a prima vista. Ma il commissario non ha intenzione di darmi tregua, oggi. Vuole raccontarmi tutto di questa vicenda che per lui rappresenta un successo, anche se il termine “successo” in questo contesto può suonare sinistro. Ma per lui è stato uno di quei casi, purtroppo rari, in cui si riescono a separare i buoni dai cattivi, le vittime dai carnefici. I cattivi – riprende a raccontare Parini mentre ancora sono alla finestra – sono quelli che arrivano anche a bendare e legare una ragazza. A picchiare e gettare persone in mare, per poter sopravvivere. O forse semplicemente perché hanno perso il senno.
Io intanto cerco di tenere a mente la magia di quel paesaggio, la piccola isola di Capo Passero di fronte alla spiaggia, che si può raggiungere a nuoto, e quella luce al tramonto, che allarga il cuore e ti infonde un senso di immensa gratitudine verso la vita… Ricordo il tramonto struggente che abbiamo visto durante una gita per raggiungere il faro sull’Isola delle Correnti. Senza sapere che proprio lì erano stati ritrovati i cinquantanove naufraghi sopravvissuti. Guardo il commissario e mi chiedo se potrò mai tornare a Portopalo, che avevo eletto come luogo dell’anima, con lo stesso spirito del mio primo viaggio. Oppure mi verrà sempre in mente questa nave dei folli, a guastare tutto?
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Il racconto di Parini finisce così: mesi dopo il commissario riesce a fermare il Pastore, a Lecce, in un centro di accoglienza, dove ha portato con sé una bambina, anche lei fra i naufraghi salvati. Non è sua figlia, come l’uomo ha provato a sostenere. Per fortuna lei ha diritto a un’altra chance, a una vita migliore: viene adottata da una famiglia pugliese. Il Pastore invece viene condannato, con altri quattro nigeriani, al “fine pena mai”, l’ergastolo. Anche se poi la condanna verrà tramutata in trent’anni di carcere, perché i responsabili sono tutti incensurati. Anche se uno di loro è latitante, forse in Germania, chissà. E in ogni caso si riesce a provare la responsabilità dei quattro nigeriani solo per tre omicidi. Che cosa sia successo alle altre persone scomparse rimarrà per sempre un mistero, o un segreto. Ma comunque, per una volta, secondo il commissario giustizia è (quasi) fatta.
«Ci sono stati tredici morti. L’ultimo forse si sarebbe potuto salvare perché è finito in mare poche ore prima del soccorso. E dire che il tredici è il mio numero fortunato…» Sorride mesto, poi, intuendo il mio disagio, si zittisce. Un uomo dai baffetti appuntiti e un po’ ridicoli si affaccia alla porta. Il commissario gli va incontro. «Torno fra un attimo», dice, ma io spero che il suo attimo, come tutti gli “attimi” in cui scompare, si protragga almeno il tempo di tirare il fiato. Sono sfinita, arrivata. E pensare che stamattina non vedevo l’ora di tornare al più presto nella sede del GICIC, dopo la mia gita a Ragusa. Avevo fretta di continuare il nostro lavoro, di rimestare nella memoria, in questo ufficio-museo sull’immigrazione clandestina. E volevo sentire finalmente il racconto dell’avventura dietro l’encomio. Invece mi ritrovo con un mucchio di carte in mano, che vorrei solo poter gettare nel cestino insieme alle immagini che evocano.
Mentre trascrivo date e nomi sul taccuino, mi cade l’occhio su un piccolo appunto, in un angolo di una pagina: «Trio Privitera, Carmelita». Sembra una vita fa, e invece sono passati solo un paio di giorni. L’atmosfera era completamente diversa, in ufficio: Amir mi stava raccontando di sua moglie, Elisa, e del suo lavoro di artista, delle sue performance in siciliano e in arabo. Il commissario, forse per non essere da meno, aveva buttato lì: «Lo sai che mia madre Carmelita è stata una cantante? Faceva parte del Trio Privitera, con il nipote Franco. È andata anche a Sanremo. Nel 1958. A casa ho tutti i loro dischi». Ma non avevo fatto in tempo a chiedergli se mi stava prendendo in giro perché era arrivato non so chi e si era messo a parlare di non so cosa. Così mi ero appuntata il nome del Trio Privitera e di Carmelita, per cercare su YouTube le loro canzoni. Ma adesso mi sembra impossibile tornare a quella leggerezza.
Scorro con gli occhi la deposizione di una nigeriana sopravvissuta al viaggio della nave dei folli, quella che è riuscita a risalire a bordo e a legarsi alle taniche di benzina: «A questo punto il pilota, gridando forte, ha ordinato ad alcuni passeggeri di gettare in acqua un uomo che stava dando fastidio, dicendo che era posseduto dal demonio».
Quando Parini rientra in ufficio, gli domando chi era quell’uomo. «Te lo spiego dopo», sorride. Ma invece non mi spiegherà un bel niente: mi toccherà scoprire da sola chi si nasconde dietro quei baffetti, che si paleseranno sovente nel quartier generale del GICIC per ottenere notizie di prima mano sui terroristi islamici che potrebbero mescolarsi fra i clandestini e fra i profughi. Ma ogni volta se ne andrà deluso, senza nulla di interessante da riferire a Roma. Mentre mi dirigo verso la porta, desiderosa di lasciare al più presto l’ufficio, sento il commissario dirmi «Ti racconto della lode domani, giornalista», come se mi stesse promettendo un qualche premio di consolazione.
In albergo ripenso ai racconti di Parini, alla sua triste soddisfazione. Leggo i fogli della sentenza. E scopro, dalle testimonianze, che questa sua lettura da giustizia-è-fatta non mi basta. E non solo perché, da garantista convinta, considero l’iconografia della giustizia bendata una metafora della sua fallacità, non certo della sua imparzialità. No, in questo caso c’è un altro motivo: nelle carte, nelle testimonianze, in tutti i documenti di questa storia fanno continuamente incursione il diavolo o le streghe, frutto di credenze ancestrali e allucinazioni. Demoni falsi che hanno creato demoni veri, in carne e ossa, come Sony o il Pastore. Ma c’è stato anche chi, su quel gommone, ha combattuto da solo i suoi demoni, senza scaricare sugli altri la violenza e la follia della traversata: alcuni migranti già al terzo giorno si sono buttati in acqua per la disperazione. Sono usciti di senno per la fame, per la sete, per la paura. L’ultimo, addirittura, poche ore prima dell’arrivo dei soccorsi.
Quindi non c’erano solo cattivi che uccidevano i buoni. Non era uno scontro fra le forze del bene e quelle del male, come mi ha detto lui. Non è andata così. Molti, non si sa quanti di preciso, in balia del terrore di non farcela, si sono suicidati. Assurdo, inaccettabile.
Sui barconi non c’è scontro fra le forze del bene e quelle del male, molti sono in balia del terrore, si suicidano per paura di non farcela
Se avesse resistito solo qualche ora in più almeno lei, l’ultima che si è gettata in mare, una donna nigeriana di soli 25 anni, ora sarebbe salva. E chissà, magari sarebbe diventata un’altra conoscenza del GICIC. Accolta, aiutata e protetta, come Happy, magari sarebbe tornata qui a Siracusa ad aiutare il commissario per qualche indagine. E invece lei è morta, poche ore prima del soccorso, perché su quel gommone era entrata in scena, oltre alla paura, la rassegnazione.
Mi torna alla mente un romanzo, letto anni fa, il cui epilogo mi aveva turbato: Simmetrie amorose, di Jeanette Winterson. Durante un naufragio, un uomo arriva a incidere il corpo della moglie per cibarsi della sua carne arrostita dal sole: «Feci il taglio con attenzione, lo feci come un chirurgo, non come un macellaio. Il mio coltello era affilato come un laser. Lo feci con dignità, affamato com’ero». Oggi questa frase, mi pare più comprensibile. In mare, se si va alla deriva, naufraghi, si può impazzire. Nulla di più. Nulla di meno. «God is powerful», così terminava il messaggio digitato sul cellulare da uno dei superstiti. «Dio è potente.» Che spietata illusione. Ripenso alla poesia appesa sulla parete nella sede del GICIC, ispirata alla barca che trasporta migranti, al punto in cui dice: «Ho visto uomini contro altri uomini ». Ecco, questa frase mi torna, si aggiusta meglio nella mia mente, più di quell’idea di giustizia-è-fatta. Mi devo rassegnare a vivere, come tutti, in un mondo rovesciato dalle ingiustizie.