Nel dibattito di avvicinamento alle elezioni amministrative 2016 c’è un argomento che viene curiosamente omesso, ma rischia di essere decisivo. Si tratta di una – seppur sommaria – analisi della composizione sociale di Milano, fotografata dopo sette anni di crisi economica. Accanto alla contabilità del “cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si potrebbe ancora fare”, nel nostro bilancio di fine mandato dovrebbe vivere una riflessione più originale e, a mio avviso, più utile: con chi e per chiabbiamo lavorato. Se riteniamo di aver coltivato ciò che la città del 2011 esprimeva in potenza, è il momento di riflettere sui protagonisti insieme con i quali, da qui al 2021, vogliamo definire i nuovi assetti della città.
Ci ha offerto uno spunto Dario Di Vico, pochi giorni fa, dal suo osservatorio sul Corriere della Sera: insieme al tradizionale aggregato sociale composto di lavoratori del pubblico impiego, della scuola e dell’università – scrive – nella città in trasformazione è rilevante la spinta delle competenze, cosa diversa dalle tradizionali “professioni”. Un blocco sociale composito quanto rilevante, anche in termini di espressione del consenso, che vive la contraddizione tra detenere un alto capitale umano e percepire un basso reddito.
Microcredito, sharing, start up, coworking raccontano la città di Milano molto melgio della politica
La mia opinione è che le pratiche messe in campo in questi anni sia dall’amministrazione sia dal settore privato – microcredito, sharing, start up, coworking, nuove manifatture, nuove forme di distribuzione dei prodotti – abbiano dato voce a tali forze molto più di quanto il racconto della città e l’offerta politica abbiano registrato. Il divario è tra politiche – che consistono nell’amministrare assecondando forze vive e spontanee – e politica, che dovrebbe intuire, di là dai singoli tasselli, il mosaico; per renderlo riconoscibile prima di tutto ai diretti interessati, chiamandoli al protagonismo.
Si tratta di ceti sociali che vivono di lavoro, non di rendita. Con limitato potere d’acquisto ma crescente capitale simbolico, relazionale, culturale. Soggetti cui dovremmo rivolgerci in maniera privilegiata, anche per altre due ragioni. In primo luogo essi rappresentano uno dei motori propulsivi della “città che sale”, che si contende competitività internazionale con altre grandi piattaforme urbane. In secondo luogo, sono ceti quantitativamente crescenti e pongono un tema tipicamente politico, quello delle alleanze sociali prima ancora di quelle politiche.