In Occidente, come si può vedere su qualsiasi spiaggia, il tatuaggio è sdoganato da tempo. È diffuso, è apprezzato, ed è anche assurto a forma d’arte moderna, con tanto di mostre. In Giappone, invece, le cose stanno in modo diverso: l’irezumi (cioè, tatuaggio) è visto con sospetto misto a disprezzo. Chi si fa tatuaggi testimonia, in modo evidente, il suo collegamento con ambienti della malavita, del carcere, del “mondo di sotto”.
È una percezione nata nel periodo Edo (1603-1868), quando i carcerati venivano tatuati lungo le braccia e le spalle. Non era un passatempo, né una forma artistica. Era un marchio d’infamia: il disegno rappresentava il crimine commesso e serviva a rendere perenne il segno della detenzione. Quando sarebbero usciti, non potevano nasconderlo a nessuno: bastava chiedere di alzare le braccia e, sotto al kimono, si sarebbero visti i tatuaggi. Nessuno avrebbe più dato loro lavoro.
La storia non è cambiata molto. Nelle carceri non si fanno più tatuaggi di infamia, ma la tradizione si è mantenuta fino a poco tempo fa. Il tatuaggio tradizionale, col tempo, divenne patrimonio della Yakuza, la mafia giapponese, che era composta da frequentatori assidui delle carceri. A ncora oggi mostrare tatuaggi in pubblico (anche solo alle terme, per capirsi), è visto come un segno di maleducazione. Peggio: è visto come una minaccia. “Ogni membro della Yakuza ha un tatuaggio. Il disegno classico è quello di una tigre che combatte con un drago”. Per molti clan era anche obbligatorio.
Certo, le cose adesso sono meno drastiche. L’influenza occidentale ha attenuato i toni, diffuso le mode. Ma nel fondo, la paura rimane.