Falso in bilancio, la riforma Renzi non elimina le scappatoie

Falso in bilancio, la riforma Renzi non elimina le scappatoie

L’Italia ha un problema di corruzione di lunga data, che il Presidente del consiglio, Matteo Renzi, si è impegnato ad affrontare. Andrea Lorenzo Capussela e Vito Intini ne hanno scritto in proposito, sul blog Europp della London School of Economics. Parlano, in particolare, delle recenti norme, varate a maggio, che modificano il reato di falso in bilancio. E sostengono che le nuove norme abbiano aperto scappatoie pericolose, in quello che è un atteggiamento indicativo della cronica incapacità del sistema politico italiano di produrre riforme, politiche o economiche adeguate.

Il 16 giugno, la Corte di Cassazione ha assolto una persona che era stata condannata a sette anni in appello per bancarotta, proprio applicando la legge che era entrata in vigore un giorno prima. Alla base dell’assoluzione sta il fatto che la nuova norma potrebbe non punire più come reato l’inclusione deliberata nei bilanci societari di valutazioni errate di attività o passività di bilancio.

Questo episodio può sembrare banale ma è un buon esempio per tentare di comprendere alcuni dei principali problemi politici ed economici dell’Italia.

Le motivazioni della sentenza non sono ancora state depositate dai giudici e alcuni membri del Governo hanno osservato correttamente come, in assenza di queste, sia impossibile valutare con precisione gli effetti della nuova legge.

La deliberata inclusione di errori nei bilanci delle società potrebbe non essere considerata un crimine 

Tuttavia, se si assume che la Corte di Cassazione non abbia frainteso la nuova legge – il che è abbastanza ragionevole posto che è proprio la Cassazione ad avere l’ultima parola nell’interpretazione delle leggi – si può concludere che una scappatoia di fatto è già stata aperta.

D’ora in poi, solo le forme più grezze di falso in bilancio potranno essere perseguite e punite – per esempio quando una società dichiara di possedere beni che in realtà sa perfettamente non essere di sua proprietà – ma se invece un’altra società decide di valutare un’automobile vecchia di dieci anni a poco meno del prezzo di acquisto potrebbe non esserci alcun reato, perché la questione riguarderebbe appunto la valutazione del bene, non la sua esistenza.

Per queste forme di falso in bilancio resterebbero i rimedi civilistici: il risarcimento del danno, se del caso, e la rettifica del bilancio.

Solo che i rimedi civilistici sono di fatto un’arma spuntata, perché si trovano nelle mani di soggetti – i creditori e gli azionisti – che in genere non dispongono delle informazioni necessarie per farli valere, e non possiedono gli strumenti dei pubblici ministeri per ottenere le informazioni necessarie. Per esempio gli azioni di controllo delle società non quotate possiedono in genere le informazioni necessarie ma non hanno l’incentivo ad utilizzarle: sono loro stessi a gestire direttamente l’azienda o a sorvegliare sul managment che si sarebbe macchiato della frode. E difficilmente il falso in bilancio può avvenire senza il loro consenso.

È esattamente questa una delle ragioni per cui esistono sanzioni penali per punire il falso in bilancio. E le sanzioni sono dirette a tutelare non solo gli interessi degli azionisti o dei creditori, ma anche un più amplio interesse pubblico o collettivo, perché il falso in bilancio può falsare sia il mercato dei capitali che quello dei prodotti.

Le sanzioni non devono tutelare solo azionisti e creditori ma un più generale interesse collettivo

Da oggi, ogni azienda italiana che decida di falsificare i conti per le più svariate ragioni – sostenere la quotazione delle proprie azioni, rassicurare i propri creditori o fornitori, ottenere migliori condizioni di finanziamento presso le banche, evadere le tasse, creare fondi neri da cui trarre tangenti – potrebbe ora disporre di uno strumento versatile e sicuro: la frode valutativa o di valutazione. Solo imprese che sono così ingenue o disperate da adoperare le forme più rozze di falso in bilancio rischiano di essere intrappolate nella maglia della nuova legge.

Il contesto e la storia di questa scappatoia rendono ancora più perplessi. Spesso si fa riferimento alla ridotta dimensione media imprese italiane come debolezza strutturale dell’economia. Esse spesso sembrano impreparate a competere efficacemente in mercati sempre più globalizzati. Infatti, come mostra la Tabella 1, circa il 95 per cento delle imprese italiane sono micro imprese (1-9 dipendenti), che impiegano quasi il 46 per cento della forza lavoro occupata e producono il 30 per cento del valore aggiunto.

grafico 1Dimensioni delle imprese italiane

Il problema tuttavia non si trova nella rappresentazione statica delle dimensioni delle imprese italiane, ma nella loro evoluzione dinamica: sono poche quelle che crescono da piccole a medie o da medie a grandi. Come mostra la Tabella 2, negli ultimi dieci anni sono più le imprese che mantengono le dimensioni originarie rispetto a quelle che riescono a crescere.

Grafico 2 – dinamica di crescita delle imprese italiane nel periodo 2001-2008

Secondo la periodica analisi della Commissione Europea, come mostrato nella Figura 3, il contesto nel quale operano le PMI in Italia rimane decisamente più critico della media continentale, con debolezze strutturali segnalate nei settori dell’accesso al credito, la burocrazia, gli appalti della pubblica amministrazione e le insolvenze.

Grafico 3 – Contesto PMI italiane

Una delle ragioni altrettanto consolidate di questa dinamica sembrano essere gli standard di corporate governance in Italia, meno favorevoli alla crescita di quelli rilevati in economie comparabili (si veda ad esempio i punti 1.17 e 1.21 in questo rapporto del World Economic Forum).

Una parte del problema è rappresentata proprio dall’inaffidabilità dei documenti contabili delle società. Questo di per sé potrebbe essere effetto di altre inefficienze, come ad esempio le deboli tutele degli azionisti di minoranza (per questo indicatore il World Economic Forum colloca l’Italia in 127esima posizione su 144 Paesi considerati, fra il Nepal e l’Iran).

Il nesso di causalità sembra piuttosto chiaro ed passa attraverso il mercato dei capitali – come mostra la Tabella 4. Proprio perché si fidano meno dei conti delle imprese, gli investitori esterni – cioè quelli non collegati agli azionisti di maggioranza delle società – sono meno inclini a fornire loro capitali di lungo periodo, oltre a richiedere rendimenti e interessi superiori a quelle richieste in economie comparabili all’economia italiana. Quindi le PMI italiane si trovano svantaggiate rispetto alle proprie omologhe francesi o inglesi perché devono affrontare costi comparativamente superiori per quando riguarda l’acquisizione di capitale azionario e di finanziamenti a lungo termine, entrambi cruciali per la crescita.

Grafico 4 – Quota % di prestiti alle PMI sul totale dei prestiti

Grafico 5 – Andamento dei tassi d’interesse alle PMI e differenziale rendimento presti alle grandi imprese

Grafico 6 – Andamento prestiti non-performing alle PMI

Grafico 7 – Capitale di rischio a confronto nelle economie europee (espresso in milioni di euro)

Grafico 8 – Capitale di rischio in fase di avviamento ed espansione investimenti alle PMI in funzione del numero di dipendenti (espresso in migliaia di euro)

Grafico 9 – Numero di prestiti a breve e lungo termine alle PMI italiane

È in questo contesto che va letta la vicenda politica della nuova legge sul falso in bilancio.

 https://www.youtube.com/embed/x3KkjKMpbTI/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

MESSAGGIO PROMOZIONALE

A questo fine è anche utile ricordare che il sistema politico italiano tra il 1994 e il 2013 è stato sostanzialmente dominato da un bipolarismo di fatto, fra due coalizioni di centrodestra e centrosinistra, che in generale si sono alternate al governo.

Una delle peculiarità di questo sistema è che le tematiche relative alla giustizia penale sono state spesso al centro del dibattito pubblico in tutto quest’arco di tempo, non solamente perché la certezza del diritto latita nel Paese o perché si abbiano fenomeni diffusi di corruzione e creati connessi alla criminalità organizzata, ma anche perché fin dal 1994 il principale leader del centrodestra – Silvio Berlusconi – è stato oggetto di numerose indagini della magistratura per reati fra cui la corruzione e la frode contabile. Per queste ragioni l’informazione e l’opinione pubblica hanno dedicato alla questione del falso in bilancio un’attenzione maggiore rispetto a quanto avviene normalmente in altre nazioni.

Nel 2002 la maggioranza di centrodestra depenalizzò il falso in bilancio fatta eccezione per le società quotate. Ridusse drasticamente le pene detentive e i termini per la prescrizione di questo reato, lo rese perseguibile solo su denuncia di soci o creditori – che come abbiamo osservato in precedenza non hanno interesse o informazioni per protestare – e solo se il falso supera il 5 per cento del reddito netto della società o l’1 per cento del patrimonio netto della medesima. Quest’ultima limitazione vale anche per le società quotate, andando a creare un’ampia finestra per il falso in bilancio anche nelle sfere alte dell’economia italiana.

Nel 2002 Silvio Berlusconi depanalizzò il falso in bilancio. Le polemiche all’epoca si concentrarono sulla sua figura e sulle sue aziende

Quel provvedimento del 2002 fu vivacemente criticato dalle opposizioni. L’accusa principale era di favorire in questo il leader Silvio Berlusconi, che venne infatti assolto nei procedimenti che riguardavano lui e le sue aziende, proprio grazie alle limitazioni imposte dalla nuova legge.

Nel 2006 il centrodestra venne sconfitto di misura da una vasta ed eterogenea alleanza di centrosinistra, che non abrogò quella norma. La coalizione crollò nei primi mesi del 2008 portando ad elezioni anticipate che vennero vinte con decisione dal centrodestra.

Nell’autunno del 2011, quando la crisi del debito si abbatteva con veemenza sull’Italia, il governo di centrodestra cedette il passo a un governo tecnico, capeggiato da Mario Monti, e appoggiato anche dal centrosinistra che mantenne le redini del potere fino alla primavera del 2013.

Questo governo varò una legge anti-corruzionenon molto efficace, a nostro avviso – che però non ripristinò le sanzioni penali per il falso in bilancio. Le elezioni politiche del 2013 portarono a un governo di larghe intese, durato un anno, che non si dimostrò in grado di riformare la legge del 2002.

Quel governo si dimise dopo che il principale partito progressista – il Partito Democratico che nel 2013 aveva ottenuto il 55% dei seggi alla Camera dei Deputati, ma una maggioranza di soli due seggi al Senato – ha eletto tramite primarie un nuovo segretario di partito, Matteo Renzi, che nel febbraio 2014 è divenuto anche Presidente del Consiglio, in un governo sostenuto anche da un piccolo segmento della coalizione di centrodestra.

È sotto questo governo che a maggio il parlamento ha approvato la nuova legge sul falso in bilancio. La legge fa parte di un più ampio e ambizioso programma di riforme, ed elimina le limitazioni adottate nel 2002: la pena carceraria per il falso in bilancio è ora di otto anni, la più lunga d’Europa, i termini di prescrizione sono stati allungati, il reato è nuovamente punito d’ufficio e non ci sono più le soglie di punibilità. Tuttavia è bastato rimuovere da questa legge quattro parole – “ancorché oggetto di valutazione” – dai commi che descrivono il crimine per aprire la scappatoia di cui abbiamo detto in precedenza, e che potrebbe rendere illusoria la riforma.

L’emendamento che ha cancellato quelle quattro parole è stato presentato in fase avanzata del processo legislativo, a marzo, e sponsorizzato dal governo stesso. La stampa notò questa decisione governativa e spiegò i suoi potenziali effetti, ma governo e maggioranza in Parlamento non hanno risposto alle critiche né hanno spiegato le ragioni dell’emendamento, che fu approvato. È anche interessante notare come soltanto tre mesi prima, a gennaio, il governo si fosse espresso per mantenere le soglie di punibilità varate nel 2002, attirando a sé critiche che lo persuasero a cambiare posizione.

La decisione di lasciare delle “vie di fuga” sembrerebbe dipendere da pressioni della Confindustria

La decisione di togliere quelle quattro parole potrebbe danneggiare la crescita di lungo periodo dell’economia italiana. Eppure le ragioni della scelta di cancellare quelle quattro parole rimangono poco chiare. Un’indicazione indiretta è stata fornita a gennaio dal Ministro della Giustizia, nel corso di un dibattito sulle soglie per la punibilità, nel quale il ministro disse che erano state Confindustria e le associazioni omologhe di agricoltori e artigiani, a consigliare il governo per il mantenimento di quelle soglie.

Infatti la Confindustria non criticò la legge del 2002, e Raffaele Cantone, il magistrato a capo dell’anti-corruzione in Italia, ha recentemente sostenuto che quella legge fu approvata proprio per rispondere a richieste della Confindustria (per onestà, bisogna però riconoscere che il 28 maggio il Presidente della stessa ha definito ‘assurda’ la nuova legge, anche se non è chiaro se si riferisse all’abolizione delle soglie del 2002, all’apertura della nuova scappatioa, o alla combinazione delle due cose).

Tutto questo significa che il segmento più influente dell’imprenditoria italiana pensa di poter trarre maggiori benefici dalla frodi contabili, piuttosto che dalla possibilità di accedere più facilmente ai capitali di lungo periodo.

Piuttosto che la via virtuosa alla crescita e ai profitti, parte delle imprese italiane preferiscono altre strade, più facili da percorrere ma che portano meno lontano.

Da questo episodio si può trarre una lezione spesso dimenticata nel dibattito sulle riforme strutturali: i dettagli contano. La legge del 2002 era una riforma strutturale, ma andava nella direzione opposta rispetto a ciò di cui necessitava il Paese. La legge del 2015 è anch’essa una riforma strutturale, perché cancellava la precedente: solo che non l’ha cancellata.

Questa vicenda corrobora anche alcune riflessioni svolte in passato: il sistema politico italiano non sembra in grado, da solo, di riformare le istituzioni politiche ed economiche del Paese.

Senza pressione dell’opinione pubblica, l’Italia non riuscirà mai a portare a termine riforme strutturali efficaci. Ma i cittadini ormai detestano la politica

Sembra infatti che senza una maggior pressione da parte di elettorato e opinione pubblica, le riforme non incideranno sufficientemente in profondità o non verranno completamente attuate. Questa pressione tuttavia non si realizza, perché i cittadini affrontano gravi problemi nell’organizzarsi e agire collettivamente, dimostrano crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni, e paiono più inclini a rispondere all’inefficienza del sistema politico abbandonando l’azione politica (una risposta cosiddetta di “exit”) piuttosto che facendo sentire la propria voce (una risposta cosiddetta di “voice”).

L’affluenza alle urne diminuisce, infatti, e secondo un rapporto che stima la fiducia nelle autorità politiche nel loro complesso – dall’Unione Europea fino al singolo Comune – questa fiducia è scesa dal 41 per cento al 21 per cento rispetto allo scorso decennio.

Per quanto abili e tenaci e cli sforzi dell’attuale governo per infondere fiducia nel Paese non sembrano aver invertito tale tendenza. Infatti secondo lo stesso rapporto – che raccoglie osservazioni del 2014 fra l’elettorato ed è stato pubblicato alla fine dell’anno – la fiducia nel Parlamento e nei partiti politici è scesa negli ultimi cinque anni, rispettivamente, dal 13% all’7% e dal 8% al 3% (per chiarezza: il 93% della popolazione non ha fiducia – né molta né poca – nel parlamento, e il 97% non ha fiducia nei partiti).

Viene così creandosi un circolo vizioso, per cui i singoli partiti si affidano sempre di più ai segmenti loro fedeli dell’elettorato, che a volte solo delle reti clientelari, allontanandosi ulteriormente dal resto della cittadinanza.

E siccome non si vedono all’orizzonte forze politiche (o eventi prevedibili) in grado di rompere questo circolo vizioso, riportando i cittadini a un ruolo più attivo, c’è da chiedersi quanto tempo possa durare questo equilibrio basato sull’inefficienza del sistema politico e la disaffezione dei cittadini.

Nota: la traduzione è stata modificata dopo la pubblicazione.

X