Il mercato del lavoro italiano? Non premia i giovani né le competenze

L’analisi

L’Ocse ha pubblicato oggi l’edizione 2015 dell’Employment Outlook. Le tematiche trattate, dall’andamento congiunturale del mercato del lavoro, alla relazione fra domanda e offerta delle competenze, all’impatto della loro distribuzione delle stesse sulla disuguaglianza, permettono di gettare un po’ di luce sui problemi strutturali del mercato del lavoro italiano, sulle possibili cure. Perché di cure ancora necessita nonostante il Jobs Act, ancora incompleto, e che difficilmente sarà sufficiente per riallineare, da una parte, gli incentivi agli investimenti in capitale umano, e dall’altra a sanare l’evidente,  pernicioso stato di mismatch fra competenze domandate dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori sul mercato del lavoro. Innanzitutto è utile ricordare l’andamento dell’indicatore macro per eccellenza – il tasso di disoccupazione – dall’inizio della crisi. Il grafico 1 mostra il livello del tasso e la sua dinamica dal 4 trimestre 2007 al quarto trimestre 2016, utilizzando le stime Ocse.

Si può notare come la disoccupazione nel nostro Paese sia aumentata sensibilmente dal 2007. Siamo il quarto paese peggiore fra quelli Ocse, in buona compagnia degli altri PIIGS. A differenza di Spagna, Irlanda e Portogallo, il nostro mercato del lavoro è, però, fermo. Il gap nel tasso rispetto al 2007 è stimato quasi inalterato alla fine del 2016. I nostri compagni di sventure, mossisi prima in quanto a riforme del lavoro, stanno già sperimentando un sensibile calo della disoccupazione, sebbene il livello rimanga alto in tutti i paesi citati. Se dovessimo prendere per buone le stime, e speriamo siano troppo pessimiste – quasi da gufi – non si vede come il Governo possa abbassare la guardia, pensando che la crisi lavorativa sia finita. In assenza di crescita robusta, impossibile sperare più di un’anemica dinamica dell’occupazione.

La parte di giovani che nè studia nè lavora, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, è stabilmente su livelli elevatissimi da più di un decennio

La Figura 2 mostra invece la situazione relativa dei giovani, utilizzando in questo caso il più utile indicatore noto come NEET rate. Anche qui, un bagno di sangue, appaiati alla (quasi) fallita Grecia. Al netto dell’aumento durante la crisi, la parte di giovani che né studia né lavora, di età compresa fra i 15 e 29 anni, è stabilmente su livelli elevatissimi da più di un decennio. Non ci resta che a sperare che la situazione migliori da sola, a quanto pare e, nel frattempo, progettare qualche altro bel programma di prepensionamento utile per una “sana staffetta generazionale”: io, anziano, smetto di sognare tu, giovane, continui. Un sogno al giorno leva i NEET di torno.

L’Ocse, giustamente, fa anche notare come gran parte dei lavori distrutti nella recessione, che come spesso capita è un laboratorio di “igiene economica” spesso brutale, non ritornerà facilmente nei paesi avanzati. I posti di lavoro persi nella manifattura, checché vi diranno gli esperti del “back to manufacturing”, non riappariranno per magia, come lascia intuire il grafico 3. Anche negli Stati Uniti, dove già da anni è nata la leggenda del ritorno alla produzione manifatturiera, la creazione netta di lavoro nel settore, non è bastata a recuperare il numero di posti di lavoro persi durante la crisi. Gran parte della manifattura non guarda certo ai paesi avanzati, per creare impiego. Ma tant’è, da domani si ritornerà, gaudenti, ad ascoltare altri miti sul tema in questione. Bottom line: per il secondo paese manifatturiero d’Europa, altre cattive notizie.

Dunque se non nella manifattura, quali tipi di lavoro aspettarsi nei prossimi anni? La domanda si presta a una risposta indiretta, cercando di focalizzarci sulla dinamica della domanda e dell’offerta di competenze sul mercato del lavoro. Abbiamo già trattato il tema recentemente, e l’Ocse dà ulteriori spunti di riflessione grazie all’analisi dei dati sull’inchiesta Internazionale delle competenze della forza lavoro adulta (PIAAC). Il primo risultato chiaro è che lo “skill premium” ovvero la remunerazione delle competenze, è molto basso in Italia, come mostrato nella figura 4. Una variazione di una standard deviation nell’indice che misura le competenze numeriche è associata una variazione del 10 per cento nel salario orario lordo. Simili i dati anche per gli indicatori sulle competenze testuali.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Sono cifre basse, vicine a quelle dei paesi scandinavi, sebbene per motivi ben differenti. I paesi Nordici, infatti, sono caratterizzati da un equilibrio in cui la parte di lavoratori con alte competenze è preponderante, a differenza dell’Italia, in cui il prezzo relativo basso è indice o di scarsità di domanda, o di difficoltà a “combinare” i migliori lavoratori con le migliori imprese, chiamato tecnicamente assortative matching. Nel nostro Paese, remunerare le competenze pare un’impresa molto ardua. È il maggiore fallimento della rigidità del sistema di contrattazione collettiva e delle regole contrattuali di protezione. Le seconde sono state già riformate, mentre sul primo problema oramai è caduto un silenzio assordante. Nessuno propone più di riformare, a breve termine, un sistema di relazioni contrattuali inefficiente. Strategia? Le Calende Greche.

Che vi sia un chiaro problema nel sistema di formazione dei salari relativi lo evidenzia il grafico 5. Il grafico mostra la relazione fra offerta netta di competenze, definita come la differenza fra l’offerta relativa di competenze fra gruppi di lavoratori con competenze rispettivamente alte, medie o basse, e la domanda delle stesse approssimata dalla struttura delle professioni e la dispersione salariale. L’Italia si caratterizza per un’offerta netta relativa di lavoro altamente qualificato inferiore a quella dei paesi Ocse. I lavoratori più produttivi sono perciò in relativo “shortage” sul mercato, ma nonostante tutto la dispersione salariale è più bassa di quanto ci si aspetterebbe: l’Italia si situa sempre sotto la curva di regressione. 

Cosa impedisce che la scarsità relativa di competenze, rispetto alla domanda, causi un aumento del loro prezzo relativo? Cosa impedisce l’aumento del salario dei più competenti, che funzioni tra l’altro come segnale per i lavoratori di domani, i giovani, ad investire in più conoscenza e capitale umano oggi? Ci permettiamo di suggerire, fra le possibili concause, il sistema di contrattazione collettiva. Fallimento del mercato del lavoro e fallimento della scuola sono, perciò, interrelati. Se i segnali dei prezzi non funzionano, al netto della qualità dell’Istruzione, che ricade nella responsabilità di chi la offre, ovvero il Governo, i giovani come potranno scegliere percorsi scolatici adeguati, che remunerino le competenze, la bravura, la dedizione?

Una riforma delle relazioni sindacali è quantomai urgente, ma sul tema c’è totale mancanza di dibattito

Una riforma delle relazioni sindacali, del modo in cui il salario è contrattato, è quantomai urgente, secondo chi scrive. Ogni analisi rafforza questa convinzione. Registrate la totale mancanza di dibattito su questo è tema, è piuttosto deprimente. Vedremo se la scarsa dinamica della produttività negli anni a venire, insita nei dati poco incoraggianti sulle prospettive di crescita, convincerà il Governo che ogni ulteriore ritardo in questo ambito sarebbe una zappa tirata sui propri piedi e su quelli dei lavoratori e giovani italiani, che costa lavoro, prodotto, reddito. Tutti “beni scarsi” nell’Italia che fa fatica a risollevarsi.

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