Italcementi ai tedeschi: «Il capitalismo italiano dov’è finito?»

Italcementi ai tedeschi: «Il capitalismo italiano dov’è finito?»

«Italcementi, mercato, salotto e governo. Carlo Pesenti, industriale coscienzioso e perbene, ha deciso di cedere Italcementi al gruppo Heidelberg. L’offerta tedesca di 10,60 euro per azione è indubbiamente generosa. È vero che tra il 2005 e la prima metà del 2008 la quotazione media del titolo Italcementi è stata pari a 14,9 euro. Ma dal giugno 2008 a oggi la quotazione media era scesa a 5,9 euro. Va inoltre dato atto alla famiglia Pesenti e agli acquirenti che l’offerta è uguale per l’intera compagine azionaria», così Massimo Mucchetti, presidente della commissione industria di palazzo Madama, commenta sul suo blog la notizia della vendita dell’azienda di cementi italiana ai tedeschi di Heidelberg.

«E tuttavia – prosegue Mucchetti – al netto degli interessi immediati dei soci, questa cessione fa emergere tre fatti che interessano l’Azienda Italia e quanti in essa vi hanno responsabilità: a) il trasferimento in mani estere del controllo di Italcementi costituisce l’ennesimo esempio di latitanza del capitalismo italiano di fronte al cambio della guardia in una grande impresa; b) ai tempi di Giampiero Pesenti, era l’Italcementi a comprare all’estero, adesso la stessa impresa è comprata; b) sempre in quei tempi, l’Italcementi aveva un punto di riferimento finanziario esterno, Mediobanca, che la aiutava nello sviluppo: dalla banca milanese di piazzetta Cuccia era arrivata la proposta d’acquisto di Ciments Francais; sarà stata anche un circolo elitario, definito primo con ammirazione e poi con disprezzo “salotto buono”, ma qualche volta aiutava l’industria o no? E con che cosa e’ stata sostituita?», si chiede, dunque, il senatore del Pd.

Ai tempi di Giampiero Pesenti, era l’Italcementi a comprare all’estero, adesso la stessa impresa è comprata

Per l’ex vicedirettore del Corriere della Sera: «Carlo Pesenti ha le sue ragioni, che vanno rispettate. La recessione infinita ha messo in difficoltà i produttori di cemento, ancorché l’Italia non sia l’unico mercato del gruppo e altri operatori italiani come Caltagirone e Buzzi non abbiano alzato bandiera bianca. Accrescere la dimensione per conseguire economie di scala in produzioni a basso valore aggiunto, può avere un senso. Ed è possibile che una concentrazione transfrontaliera possa avere impatti meno pesanti sulle fabbriche italiane di quelli di una ristrutturazione puramente nazionale. Non di meno mi chiedo se, nel rispetto del Mercato unico europeo, non fossero possibili anche altre combinazioni».

«Certo, il fatto che questa iniziativa sia apparsa come un fulmine a ciel sereno può fugare i sospetti di insider trading che spesso accompagnano queste notizie. Ma la sequenza delle operazioni vuole anche dire che l’Italia ha ormai perso i luoghi dove si ragiona del futuro della sua grande impresa, dove si confrontano le alternative possibili anche al di là delle mere proposte delle merchant bank, interessate all’affare in tanto in quanto genera commissioni, ferma restando, ovviamente, la libertà di scelta finale dell’imprenditore o dell’azionista di riferimento», conclude Mucchetti.

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