La Turchia, il secondo esercito più vasto della Nato ed uno dei meglio equipaggiati, è passata nel giro dell’ultima settimana dal sostenere più o meno indirettamente l’Isis in funzione anti-Curda e anti-Assad (e Iran), all’attaccarlo. Dal 23 luglio sono cominciati bombardamenti di artiglieria e aviazione su obiettivi dello Stato Islamico (ma anche del Pkk curdo) e, soprattutto, è stata concessa agli Usa la base militare di Incirlik, nel sud del Paese. Da qui sarà molto più facile per la coalizione internazionale portare avanti la guerra al Califfato. Questa inversione di rotta – arrivata quasi all’improvviso e in seguito all’attentato sul suolo turco a Suruc, dove decine di giovani socialisti filo-curdi sono stati uccisi da un kamikaze dell’Isis – era in realtà attesa oramai da tempo. La posizione assunta da Ankara in politica estera non era più sostenibile.
In un vertice Nato convocato su richiesta turca, l’Alleanza ha dato il proprio benestare alla strategia di Erdogan, che al momento prevede di colpire due schieramenti in guerra tra loro: Isis e curdi
Erdogan, dopo le Primavere arabe, aveva schierato il proprio Paese a sostegno delle componenti rivoluzionarie islamiche dei vari Stati coinvolti – in particolare la Fratellanza Musulmana con cui il partito del premier Akp condivide molti valori – e in Siria si era dunque schierato coi ribelli contro il regime di Assad (con cui invece fino a quel momento aveva coltivato rapporti amichevoli). Ma nel giro di poco tempo quella del premier turco si è rivelata una scommessa azzardata: in Egitto i Fratelli Musulmani sono stati rovesciati dal golpe del generale Al Sisi, che ora guida il Paese; in Tunisia alle elezioni ha prevalso il fronte laico; in Libia regna il caos e il governo islamista di Tripoli si scontra con quello laico di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale come unico legittimo; in Siria la crescente infiltrazione del fanatismo islamico – sia Isis che Al Qaeda – tra i ranghi dei ribelli ha portato, di fatto, tutti gli attori regionali e internazionali dalla parte di Assad: non solo Russia, Iran e Hezbollah (alleati storici), ma anche curdi, drusi e – de facto – la coalizione internazionale a guida Usa. Erdogan si è trovato così isolato – con lui solo i Sauditi, che sono però nemici giurati della Fratellanza Musulmana – e, pur di mettere in difficoltà Assad e i curdi, ha adottato una linea a dir poco ambigua nei confronti dello Stato Islamico, lasciando transitare i suoi uomini dal confine e non reprimendone la rete di contatti sul proprio suolo. Inoltre ha anche propiziato insieme a Riad la nascita di una coalizione di sigle islamiste (tra cui la qaedista Al Nousra), chiamata “Esercito della conquista”, sperando di dare una spallata ad Assad in primavera. Il regime di Damasco tuttavia, pur avendo subito alcune gravi sconfitte, ha retto l’urto e ora è alla controffensiva.
La Turchia è il secondo esercito più vasto della Alleanza Atlantica ed uno dei meglio equipaggiati
Oltre alla mancanza di prospettive di vittoria sul terreno per l’andamento del conflitto, Erdogan ha poi scontato anche le crescenti pressioni degli alleati occidentali (anche se, visto il momento di tensione con la Russia per la questione Ucraina, non si è potuto alzare troppo la voce con Ankara). Ma non solo. Il dissenso interno contro il premier islamista si è fatto sempre più marcato, alle ultime elezioni il partito di Erdogan Akp ha perso la maggioranza assoluta dei voti e il partito filo-curdo è entrato per la prima volta in parlamento. Si aggiunga infine il profondo cambiamento dello scenario regionale in seguito all’accordo sul nucleare con l’Iran: Teheran torna ad essere una potenza economica – secondo analisti Usa dovrebbe accedere a circa 100 miliardi di risorse grazie alla fine delle sanzioni, e tutti gli esperti concordano nel ritenere che in parte andranno a puntellare Assad in Siria – con cui Ankara ha tutto l’interesse ad avere buoni rapporti (si prevedono tra i 35 e i 50 miliardi di interscambio economico). L’insieme di tutti questi fattori ha prodotto la svolta con cui la Turchia può ora uscire dall’angolo e tornare nello scacchiere mediorientale con un ruolo centrale.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Ankara non può ovviamente nascondere questa inversione di rotta, ma sta già cercando di smussarla e di ridurne l’eco con una serie di azioni collaterali, in particolare colpendo contemporaneamente all’Isis anche il Pkk curdo – in Iraq e in Turchia -, con cui ha anche congelato il processo di pace, e progettando una “safe zone” – a cui gli Usa avrebbero dato il proprio assenso – al confine che è uno sgarbo ai curdi siriani del Ypg (legati al Pkk) e che potrebbe ospitare ribelli moderati che combattano Assad (ma ad oggi l’addestramento di tali ribelli, inizialmente destinati alla guerra al Califfato, si è rivelato un catastrofico insuccesso). In un vertice Nato convocato su richiesta turca, l’Alleanza ha dato il proprio benestare a questa strategia di Erdogan, che al momento dunque prevede di colpire due schieramenti in guerra tra loro: Isis e curdi.
Dal 23 luglio sono cominciati bombardamenti di artiglieria e aviazione su obiettivi dello Stato Islamico, ma anche del Pkk curdo
Questa situazione di partenza può evolvere, semplificando, in due scenari possibili: nel primo, ritenuto più probabile dagli analisti, la Turchia partecipa ai bombardamenti della coalizione contro obiettivi dello Stato Islamico e garantisce un reale presidio del confine – che causerebbe probabilmente l’asfissia del Califfato in Siria, generando un riflusso verso l’Iraq, dove gli uomini in nero di Al Baghdadi controllano ancora alcune importanti città – anche tramite la creazione della “safe zone” concordata con gli Usa. In questo caso il vantaggio indiretto per i due principali avversari dello Stato Islamico, Curdi e Assad, sarebbe – pur affermando ufficialmente il contrario – difficilmente negabile per Ankara. Erdogan potrebbe cercare di sfruttare questa carta al tavolo delle trattative bilaterali con Teheran per forgiare migliori rapporti economici e diplomatici, e i bombardamenti su obiettivi curdi degli ultimi giorni andrebbero allora letti più come una mossa per affrontare le future inevitabili trattative da posizioni di forza, che non come il preludio a un reale conflitto destinato a intensificarsi nel tempo.
Nel secondo scenario, secondo gli esperti il meno probabile, la Turchia approfitta della situazione per colpire solo blandamente l’Isis e concentrare invece i suoi sforzi sulla repressione della nascente entità autonoma curda nel nord della Siria (Rojava), e sul dare una spallata finale al regime di Damasco, anche con operazioni via terra. Questa opzione avrebbe il pregio di stroncare il pericolo che nasca uno Stato curdo ai confini della Turchia, oltretutto legato ideologicamente al marxista Pkk (considerata un’organizzazione terrorista da Ankara e Washington), e di preservare l’immagine di Erdogan come paladino dei ribelli siriani contro Assad (e i conseguenti buoni rapporti con Riad e con la Fratellanza Musulmana). Il costo sarebbe però molto alto: la guerriglia curda in Siria colpirebbe l’esercito turco, visto come invasore; il terrorismo legato al Pkk bersaglierebbe la Turchia dall’interno; gli stessi Usa non sarebbero grati all’alleato turco per aver di fatto avvantaggiato l’Isis; l’Iran potrebbe raffreddare i propri rapporti con Ankara, causandole un grave danno economico e, in generale, Erdogan rischierebbe di ripiombare il Paese in un isolamento peggiore di quello attuale.