Una firma di tutto riposoSpesa pubblica, chi la difende ha solo paura della libertà dei cittadini

Spesa pubblica, chi la difende ha solo paura della libertà dei cittadini

Una domanda: perché mai sembra tanto difficile tenere sotto controllo la spesa pubblica, anzi ridurla per permettere finalmente di abbassare le tasse in maniera permanente? Si può andare molto indietro nel tempo, alla ricerca delle ragioni storiche del problema. Tuttavia, è opportuno fermarsi ai primi anni 2000, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche a mani basse, e – come fiore all’occhiello al ministero dell’economia con Tremonti ministro – diventò sottosegretario Vito Tanzi, convinto liberale e liberista, già direttore del dipartimento di Fiscal Affairs al Fondo Monetario Internazionale.

Come brillantemente raccontato da Tanzi medesimo nel suo ultimo libro (Dal Miracolo Economico al Declino? Una Diagnosi Intima), la speranza da lui coltivata nel momento di accettare l’incarico era che l’ampia maggioranza parlamentare di cui godeva Berlusconi potesse permettere l’implementazione di un’agenda economica focalizzata sui punti accennati sopra, cioè una credibile riduzione permanente delle imposte, finanziata da una riduzione altrettanto stabile e robusta della spesa pubblica corrente.

Il libro autobiografico di Tanzi, pur partendo dagli anni precedenti passati al Fondo Monetario Internazionale, trova il suo sbocco nel racconto tra il tragico e il farsesco della sua (breve) esperienza da sottosegretario, in cui dovette scontrarsi con il malfunzionamento endemico della macchina ministeriale (16 suoi assistenti 16 che non avevano abbastanza da fare, e che potevano essere solo riassegnati ad altri sottosegretari; 2 aerei di stato 2 per portare Tremonti e il governatore della Banca d’Italia Fazio a un meeting dell’FMI a Washington) e soprattutto con una politica economica molto lontana dalle promesse iniziali, che erano di stampo liberale.

La politica economica liberale, promessa da Berlusconi, venne stoppata all’insegna del motto “non si mettono le mani nelle tasche dei cittadini”

La testimonianza pesante di Tanzi è che lui – nel momento in cui penso a come implementare una rigorosa e ampia spending review – venne stoppato pubblicamente e privatamente da Tremonti e dello stesso Berlusconi, all’insegna del motto “non si mettono le mani nelle tasche dei cittadini”. I conti non tornano: con un livello elevato di debito pubblico, la scelta politica di non toccare se non marginalmente la spesa pubblica (oppure semplicemente di impedirne aumenti ulteriori) mentre contemporaneamente si abbassano le tasse non può che tradursi in un aumento del deficit.

L’unica via di uscita da questo stallo finanziario consiste nel trovare forme di entrate una tantum, ad esempio grazie alla privatizzazione di imprese pubbliche, oppure nella forma peggiore di condoni fiscali. Il governo Berlusconi/Tremonti – a parte la formazione di deficit – cercò di migliorare i conti pubblici attraverso condoni fiscali e spostando a un futuro sempre più lontano la revisione della spesa, nella speranza vana di un salvifico boom del Pil che permettesse di far quadrare i conti pubblici con minore fatica.

“Ma la spesa pubblica rappresenta il reddito di qualcuno!” Questa frase è una versione terribilmente caricaturale di alcune riflessioni dell’economista John Maynard Keynes

La lettura di questo libro invita a sgombrare il campo della discussione pubblica da alcune argomentazioni a sostegno della spesa pubblica “senza se e senza ma” che sono molto poco sensate, se analizzate con buona attenzione.

1) “Non è possibile misurare l’efficienza della spesa pubblica!” Gli elementi da misurare sono certamente molteplici, dal momento che l’intervento pubblico riguarda molte aree diverse (e i diversi indicatori vanno “sommati”, cioè bisogna decidere sui pesi da attribuire a ciascuno di essi) ma ciò non vuol dire che la misurazione sia impossibile. Anzi: chi è contrario alla misurazione tipicamente sembra affetto da pregiudizi di stampo crociano, cioè contro l’idea stessa di quantificare i fenomeni umani. In certi casi vale anche il famoso detto andreottiano sul pensar male, peccaminoso ma efficace: chi è contro la misurazione vuole difendere lo status quo perché le misurazioni – se ben fatte – sono una forma di trasparenza che permette di giudicare se l’allocazione delle risorse attuale è sensata. In effetti, Vito Tanzi è coautore di un importante articolo (purtroppo un po’ datato, in quanto risale al 2003) a proposito della misurazione comparata dell’efficienza della spesa pubblica in diversi Paesi. Uno dei messaggi principali di questo articolo è che i Paesi con un settore pubblico più ristretto sono più efficienti, mentre quelli con un settore pubblico più ampio redistribuiscono di più.

2) “Ma la spesa pubblica rappresenta il reddito di qualcuno!” Questa frase è una versione terribilmente caricaturale di alcune riflessioni dell’economista John Maynard Keynes e di successivi autori che si riconoscono nel suo pensiero, a partire da Trygve Haavelmo e Nicholas Kaldor. L’idea sottostante è che la domanda aggregata di beni e servizi sia più efficacemente sostenuta dalla spesa pubblica che dalla spesa privata, per cui il Pil e l’occupazione sono spinti verso l’alto da una tassazione che sposta risorse a vantaggio del settore pubblico, dal momento che “i cittadini” spenderebbero di meno. Messo in questi termini, il ragionamento porta al paradosso secondo cui la scelta migliore consisterebbe nel tassare al 100% il reddito dei cittadini per poi lasciare allo stato la decisione su come spenderlo. Dal momento che conta l’economia reale, cioè la produzione di beni e servizi, non è molto chiaro chi avrebbe voglia di produrre questi beni e questi servizi se il reddito che ne ricava è nullo, dato che è espropriato interamente dallo stato.

È pericoloso per lo sviluppo futuro di un paese il ragionamento secondo cui lo stato in ogni caso è capace di decidere meglio dei cittadini a proposito di come spendere il reddito prodotto dai cittadini stessi

Anche senza voler portare il discorso all’estremo, l’idea che la spesa pubblica “compri più beni” del reddito lasciato ai privati può avere un senso quando si stia ragionando su acquisti di beni e servizi da parte del settore pubblico stesso (ad esempio nella forma di investimenti pubblici), mentre il discorso ha molto meno senso se la spesa pubblica consiste in trasferimenti ai cittadini (nella forma di sussidi, pensioni eccetera) in quanto la metaforica palla relativa a “quanto del reddito viene speso” torna ai cittadini stessi. E dunque bisogna confrontare la propensione al consumo di chi viene tassato rispetto a chi riceve il trasferimento da parte dello stato: se in media chi viene tassato spende una percentuale maggiore del proprio reddito rispetto a chi riceve un trasferimento l’argomentazione cade rovinosamente, anzi si traduce nel suo contrario: il reddito e l’occupazione del paese crescono se si tassa di meno, non di più.

Intendiamoci: le aree in cui l’intervento pubblico nella forma di spesa diretta – anche se non necessariamente esclusiva – da parte dello stato sono molte e importanti: dalla difesa da aggressioni esterne all’ordine pubblico, dalla redistribuzione del reddito e della ricchezza allo stato sociale (che raggruppa pensioni, sanità, istruzione e sussidi contro la disoccupazione). Tuttavia, è pericoloso per lo sviluppo futuro di un paese il ragionamento secondo cui lo stato in ogni caso è capace di decidere meglio dei cittadini a proposito di come spendere il reddito prodotto…dai cittadini medesimi, anche se questa spesa pubblica – per usare un pietoso eufemismo – non è esente da sprechi e inefficienze.

Perché tutto questo paternalismo? Perché questa paura per le libere scelte dei cittadini?

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