Alla fine sembra che Fausto Bertinotti ci abbia preso giusto. Lo storico leader della sinistra italiana era stato invitato al Meeting di Comunione e Liberazione per un incontro, ma ha deciso di fermarsi a Rimini per quattro giorni. Ospite al Grand Hotel – felliniano monumento della città romagnola – l’ex leader di Rifondazione comunista si è appassionato all’evento. Vuole curiosare tra gli stand e ascoltare i dibattiti organizzati dal movimento cattolico. Anzi, i responsabili hanno già confermato la sua partecipazione a un incontro in programma con il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Juliàn Carròn. Un confronto dal biblico approfondimento su «La scelta di Abramo e le sfide del presente».
Tra il sorpreso e il divertito, da qualche tempo anche i giornali si sono accorti della presenza di Bertinotti al Meeting. Chissà perché le conversioni fanno sempre discutere, anche quelle presunte. Probabilmente sono gli stessi che per anni hanno ironizzato sul “comunista in cashmere”, sarcastico sottotitolo di un leader proletario e della sua cura per il bel vestire. Un’altra passione tutta da verificare, peraltro. «Mio marito avrà al massimo sette maglioni di cashmere» raccontava qualche anno fa la moglie Lella. Nel frattempo tutti a scavare sulla svolta religiosa di Bertinotti. Di fronte a tanta curiosità, il diretto interessato non sembra scomporsi. Perché ha deciso di andare a Rimini? «Semplice, perché sono stato invitato – ha spiegato qualche giorno fa al Fatto Quotidiano – In genere, quando mi invitano, vado».
La svolta, se di svolta si può parlare, è tutt’altro che improvvisa. Già colpito dalla figura di Papa Francesco, è da più di un anno che l’ex leader di Rifondazione ha avviato un articolato dialogo con il mondo cattolico
La realtà è un po’ più complessa. Intanto perché la svolta, se di svolta si può parlare, è tutt’altro che improvvisa. Già colpito dalla figura di Papa Francesco, è da più di un anno che l’ex leader di Rifondazione ha avviato un articolato dialogo con il mondo cattolico. Un confronto battezzato dal libro «Sempre daccapo. Globalizzazione, socialismo, cristianesimo», una lunga conversazione con don Roberto Donadoni. Da Marx al Vaticano il passo è stato breve, ma senza rinnegare il proprio passato. La scomparsa della sinistra italiana per Bertinotti è evidente. Eppure, anche ammettendo una serie di errori, l’ex presidente della Camera continua a difendere le scelte di una vita: «Io sono stato un marxista eretico – spiegava l’altro giorno a Repubblica – E lo sono ancora grosso modo, per nulla rinnegato».
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Ma il nuovo corso del mondo impone una presa di coscienza radicale. Già in tempi non sospetti Bertinotti aveva riconosciuto la sconfitta della sfida comunista, ammettendo la centralità della cultura liberale. Quantomeno nella sua attenzione all’individuo, intesa come difesa dei diritti della persona. Oggi l’ex leader di Rifondazione guarda con entusiasmo alla figura del Pontefice. Gli attacchi alla politica di monsignor Nunzio Galantino li ha condivisi dalla prima all’ultima invettiva. «La sinistra impari dalla Chiesa di Bergoglio, impari la rottura, la discontinuità» si confessava recentemente in un’intervista. Intendiamoci, a scanso di privatissime inversioni a U, Bertinotti è ancora lontano dalla pratica religiosa. «L’interesse per il cristianesimo è da sereno non credente» ha ammesso qualche mese fa. E se nel 1965 ha deciso di sposare la moglie Lella in Chiesa, è stato solo per accontentare una precisa richiesta della madre.
Certa stampa non gli ha mai perdonato il rapporto con i salotti romani. Chissà perché, poi. Come se non si potesse rappresentare il proletariato e frequentare il jet set della Capitale
Ovviamente non è stato l’unico matrimonio religioso a cui Bertinotti ha partecipato nella sua vita. Due anni fa ha fatto discutere la sua presenza, stavolta in qualità di testimone, alle nozze della showgirl Valeria Marini. Ennesima rappresentazione di quel rapporto con i salotti romani che una certa stampa non gli ha mai perdonato. Chissà perché, poi. Come se non si potesse rappresentare il proletariato e frequentare il jet set della Capitale. Oppure difendere i diritti dei lavoratori indossando un maglione di cashmere (ancora quello…). E sì che la storia personale di Bertinotti avrebbe dovuto metterlo a riparo da critiche e maldicenze. Lui, sindacalista, esponente del PCI, segretario di Rifondazione Comunista. Nel 1998 per non rinnegare i propri ideali provocò persino la caduta del governo Prodi. Fu una scelta difficile, che a sinistra qualcuno ancora gli rinfaccia.
La presidenza di Montecitorio e la dimenticabile esperienza della sinistra Arcobaleno chiudono la sua carriera politica. Anzi, è proprio all’indomani della sconfitta elettorale del 2008 che Bertinotti lascia gli incarichi di dirigente politico per tornare alla militanza. L’ironia di qualche osservatore per i suoi modi poco proletari non cessa nemmeno allora. La stessa che per anni ha sorriso di quella erre moscia così borghese. Dei salotti e del cashmere si è già detto. Meno della sua passione per il pallone. «C’è un settore in cui non c’è alcuna differenza tra noi» raccontò una sera Silvio Berlusconi, durante un confronto televisivo del 2006. «Entrambi amiamo il bel calcio, siamo nati vicini, lui a Sesto San Giovanni e io in Viale Zara, tutti e due tifiamo Milan». Tra la sorpresa dei telespettatori, il Cavaliere si alzò e regalò all’avversario un cronografo della società rossonera. Dono accettato con educazione da Bertinotti. Pensare che all’epoca qualcuno ebbe persino da ridire su quella reazione gentile, considerata quasi un’apertura al grande capitale.
È il destino di Bertinotti, un compagno nei salotti borghesi. Come non ricordare l’intesa, soprattutto mentale, con lo psichiatra Massimo Fagioli? Il creatore dell’analisi collettiva e il leader di Rifondazione si erano trovati e avevano intrapreso insieme un percorso a metà strada tra psiche e politica. Un rapporto nato nel 2004 e chiuso tra qualche polemica, pare, alcuni anni fa. Quest’estate, invece, ha conquistato l’attenzione dei quotidiani l’inattesa eredità dell’amico Mario D’Urso, avvocato, frequentatore di salotti e alta finanza. Secondo alcune indiscrezioni, prima di morire avrebbe lasciato a Bertinotti 500mila euro e due serigrafie di Andy Warhol. C’è chi ha commentato con il solito sarcasmo. «La somma che andrà a incassare non è da poco – ha scritto Libero – 500mila euro, cioè un miliardo delle vecchie lire. Che equivalgono all’incirca a 25 anni di lavoro di un operaio». In realtà sembra che alla fine l’eredità non sia neppure così cospicua. Bertinotti non commenta. Poco prima si era limitato a un ricordo dell’amico: «Mario era un uomo profondamente buono – ha spiegato – Lo definivano snob, ma non era vero». Anche lui.