Da Palazzo ai teatri, Renzi prova a tornare Renzi per riprendersi l’Italia

L’analisi

Dietro l’annunciato tour in cento teatri d’Italia per «raccontare l’operato del governo», s’indovina la traiettoria imboccata dal premier: rilanciare l’azione dell’esecutivo e ridare smalto alla propria leadership, ultimamente eclissatasi di fronte alle intemperanze verbali di Beppe Grillo e Matteo Salvini, spregiudicati nel capitalizzare facili consensi, fomentando paure e pulsioni pericolose su immigrazione e crisi dell’Eurozona.

Vero, l’intenzione renziana, osservata con sguardo disincantato, appare una tipica mossa da campagna elettorale. A corroborare tale scenario è la promessa di abbassare le tasse, cancellando gli odiosi balzelli di Imu e Tasi nel 2016. Nel caso la situazione precipitasse e l’interruzione precoce della legislatura fosse qualcosa di più della semplice ipotesi di scuola su cui amano esercitarsi i migliori retroscenisti, Renzi si presenterebbe davanti agli elettori potendo spendere una carta vincente.

Girare per i teatri d’Italia significa, nell’interpretazione autentica del renzismo, fare politica, non propaganda

Tuttavia l’aver programmato di girare per i teatri d’Italia significa, nell’interpretazione autentica del renzismo, fare politica non propaganda. Laddove oggi politica significa anche controllo del messaggio, scontro di narrazioni, racconto di una storia in cui coinvolgere i destinatari cui ci si rivolge. In altre parole, ripristinare “un metodo” capace di generare, nel triennio 2011-2014, un solido rapporto fiduciario con i cittadini,  mietere consensi trasversali, forgiare una leadership monopolizzando attorno ad essa il dibattito pubblico. Un metodo, studiato a tavolino, che si snoda lungo tre direttrici: la comunicazione, l’immagine e la leadership.

La comunicazione, innanzitutto. Leopolde, comizi show, conferenze stampa pirotecniche servono a spettacolarizzare appuntamenti politici tramutandoli in eventi mediatici, esibire un linguaggio ad alto coefficiente emotivo, spesso infarcito di metafore sportive e slogan ad effetto, per una retorica distante anni luce dal soporifero linguaggio della rottamata classe dirigente del Pd. Il format è collaudato: Renzi a calcare il palcoscenico, foto e video sullo sfondo. Così è stato durante le primarie fiorentine nei teatri cittadini, così ha ottenuto la ribalta nazionale nel 2012, viaggiando in camper lungo lo Stivale per sfidare Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola, così questa estate ha celebrato il suo ritorno al centro della scena mediatica. 

Il 18 luglio scorso, all’Assemblea Nazionale del Pd, ambientata a Expo, a un certo punto, sono scorsi sul megaschermo le foto dei bambini assoldati dall’Isis a Palmira, poi l’improbabile guardaroba del leader della Lega Nord all’insegna del “Padania is not Italy”, e infine la distesa d’acqua del Mediterraneo punteggiate da corpi inermi di disperati. Allora il boyscout di Pontassieve, mantenendo alta la tensione emotiva dell’intervento, ha ricordato la tragedia di Raghad Hasoun, ragazza morta in mare perché «gli scafisti-schiavisti» le avevano sottratto l’insulina, esile speranza che la teneva aggrappata alla vita.

E poi ancora, pochi giorni fa, al Teatro Rossini di Pesaro, quando, sbeffeggiando il comico pentastellato, ha commentato il video della sua fallace previsione «Chi vuoi che venga a Rho?», preconizzante numeri fallimentari per Expo; e successivamente, per esplicitare il concetto «dell’Italia che dove tornare a fare l’Italia, cioè essere la patria della bellezza» ha lanciato, a mo’ di navigato presentatore televisivo, una carrellata di scorci paesaggistici mozzafiato e opere d’arte del Bel Paese, accompagnata dal crescendo rossiniano del Guglielmo Tell in sottofondo.

Pochi giorni fa, a Pesaro, ha lanciato, a mo’ di navigato presentatore televisivo, una carrellata di scorci paesaggistici mozzafiato e opere d’arte del Bel Paese, accompagnata dal crescendo rossiniano del Guglielmo Tell in sottofondo

Dovremmo aspettarci questo, e anche molto altro probabilmente. Il premier ripartirà dal tour dei teatri per riannodare il filo narrativo con gli italiani, invertendo una tendenza che, nelle settimane passate, ha visto incrinarsi il diffuso consenso riscosso presso l’opinione pubblica. Del resto è da lì, dall’essere in sintonia con i cittadini, che si origina il consenso, oggetto di per sé umorale e volatile, assicurano i sondaggisti, ma pur sempre pesantissimo in una democrazia, fecondo per il destino di qualsiasi leader.

Sfodererà, di nuovo, l’immagine di Sindaco d’Italia affrescata con certosino scrupolo fino all’approdo nella capitale. L’everyday man, l‘uomo nel Palazzo ma non del Palazzo, che si “tuffa” tra le persone, spara sorrisi ovunque, stringe mani con l’avambraccio rigorosamente piegato all’insù, batte i cinque ai bambini, regala sorrisi a mamme e a nonne, dispensa selfie, spogliandosi dell’aurea sacrale e riservata del potere. Sofisticata strategia, allorché i toni populisti sono sempre più accesi e la sfiducia nei partiti prolifera senza tregua. Ed ecco, infatti, infilata nel discorso di Pesaro la rivendicazione, espressa tramite le ormai celebri slide, delle politiche anticasta del governo, dalla vendita delle auto blu al tetto di 240 mila euro per i dirigenti statali, passando per il dimezzamento dei permessi sindacali. 

Ma soprattutto, e più di tutto, ci sarà il carisma del leader, ultimo tassello di un mosaico pronto ad essere rispolverato. Quella di Renzi è una leadership vorace, disinibita, emulata e disprezzata. Una rivoluzione per un partito, il Pd, e una robusta tradizione politica, quella della sinistra italiana, imbevuta di ideologia collettivista e demonizzazione dell’uomo-solo-al-comando. Conflittuale, carismatica, personalizzata, la leadership renziana si nutre di nemici da combattere (ieri erano coloro da rottamare, oggi sono «i gufi che tifano contro l’Italia»), poggiandosi sulla riuscita di due difficili mosse, compiute in simultanea durante la scalata al Pd e al Paese.

Con la prima ha liberato il Pd da una nomenklatura inamovibile, rimosso cerimonie desuete e tabù anacronistici che, ancorandolo al secolo scorso, zavorravano il partito. Con la seconda ha inverato nelle urne la vocazione maggioritaria sognata al Lingotto nel 2007 da Walter Veltroni, accantonando la stagione dell’ antiberlusconismo militarizzato. 

La visita segreta ad Arcore nel 2010, gli ammiccamenti costanti con l’universo Mediaset (a titolo esemplificativo si vedano le felici comparsate nei salotti tv di Barbara D’Urso e Maria de Felippi), il patto del Nazareno, “l’intesa toscana” con Denis Verdini, il fresco appello alla platea ciellina, a lungo compiacente con il Cavaliere, a superare la contrapposizione manichea berlusconismo-antiberlusconismo, che ha «bloccato» il Paese per vent’anni, cosa sono se non indizi rilevatori del disegno renziano?

Smantellare l’antiberlusconismo per conquistare fasce di elettorato moderato che non cessano di esistere semplicemente perché la loro rappresentanza storica, la leadership del fondatore di Forza Italia, è in fase crepuscolare. Campagna di conquista, non di mobilitazione, direbbero gli esperti. Scorribande al centro e a destra, a costo di qualche perdita, al momento residuale, alla propria sinistra. Parlare al Paese nella sua interezza, anche sferzando constituency tradizionalmente prossime al Pd, come avvenuto con il sindacato e la scuola.

Ma più di ogni analisi, sistematizzazione, ragionamento sul “metodo”, vale la personalità del personaggio pubblico, l’istinto del politico: fattori difficilmente disgregabili dal punto di vista empirico. “Un barbaro”, riprendendo un termine caro ad Alessandro Baricco, tra i primi ad appoggiare Renzi quando farlo sembrava folle.  Al netto delle incongruenze, delle contraddizioni, delle retromarce verbali, dei vizi e dei difetti propri di ciascun uomo, amplificati a dismisura in uomo di potere, in un presidente del Consiglio, rimane la convinzione, a dispetto della vulgata comune, che il comunicatore Renzi si saldi con il politico Renzi, senza cesure né sbavature. 

Renzi è debole quando chiamato a tracciare una visione, proprio perché schiacciato sul presente. La sua vera natura è quella del “situazionista”, del “campione del contesto” 

Per nulla ideologico, estremamente pragmatico e realista, al limite del cinismo, debole quando chiamato a tracciare una visione, proprio perché schiacciato sul presente – questa è la sua vera natura, un “situazionista”, un “campione del contesto” – Renzi ha combinato, come suggerito dal suo illustre concittadino nel 1513, fortuna e virtù, cogliendo il momento opportuno che gli si è parato davanti a cavallo tra 2013 e 2014. Non solo slogan confezionati ad arte, tweet e selfie, dunque, ma anche capacità di «indirizzare voti, coagulare consensi, persuadere un uditorio, manovrare un’assemblea» (elezione di Sergio Mattarella docet), ha scritto Giuliano da Empoli, suo amico e consigliere politico.

Adesso, dopo un anno abbondante al timone dello Stato, con le acque in tempesta e sporadici refoli di vento a gonfiare le vele della ripresa, è chiamato all’impresa improba di corrispondere, bene e in un tempo ragionevole, alle molte (forse troppe) speranze suscitate.  Un tour in 100 teatri. Matteo Renzi riparte da Matteo Renzi. Ce la farà?

* autore de “Il metodo Renzi. Comunicazione, immagine e leadership” (Armando editore), @AlbertoGalimb