Il difficile sarà prevedere se le migliaia di bambini bosniaci che hanno ormai imparato a indossare le magliette del Manchester City vorranno scambiarle con quelle giallorosse della Roma, sulle quali da oggi campeggerà il nome del loro idolo, Edin Džeko. Nelle bancarelle della città vecchia, per ora, l’unica maglia romanista è quella di Miralem Pjanić, il talentuoso centrocampista che con Edin condividerà da questo momento anche il club, oltre che la nazionale. Ma c’è da scommettere che, durante la prossima stagione, i venditori della Baščaršija si sentiranno tutti un po’ più vicini all’Olimpico. E che non ci sarà kafana bosniaca in cui gli avventori non discuteranno le imprese di Rudi Garcia e dei suoi giocatori.
Non che questo, in una certa misura, non accadesse già: qui in Bosnia Erzegovina nelle stagioni recenti il derby dell’olimpico è stato, prima di tutto, la sfida tra il già citato Pjanić e il laziale Senad Lulić, originario di Mostar. In un paese che fatica a dimenticare il proprio passato e i problemi attuali, c’è tutta una generazione di calciatori che qui viene seguita con l’ansia e la speranza di chi vede in loro gli alfieri del proprio riscatto: gli zmajevi, i dragoni bosniaci che riuscirono nell’impresa di centrare un’inedita qualificazione mondiale nel 2014.
Quando la nazionale si allena in casa, non è raro incontrarlo insieme ai suoi compagni mentre passeggia per le vie del centro, fermandosi a mangiare un burek come farebbe chiunque altro
Di quella nazionale, Edin è oggi il capitano. Un capitano che continua a coltivare il rapporto con la propria città natale, Sarajevo. Quando la nazionale si allena in casa, non è raro incontrarlo insieme ai suoi compagni mentre passeggia per le vie del centro, fermandosi a mangiare un burek come farebbe chiunque altro. I passanti lo salutano, magari chiedendo una foto, ma si astengono dalle scene di euforia collettiva cui si assisterebbe in Italia. In fondo, Džeko «è uno di noi», dicono a Sarajevo, città che nutre un astio naturale nei confronti della celebrità e di chi, soprattutto, si dimentica delle proprie origini.
Kloc, lo chiamano affettuosamente i bosniaci, parola che viene per brevità tradotta come lampione ma che sottintende una persona che è anche un po’ tonta, lenta, imbranata. Per i media locali è quasi un nume tutelare: il più popolare portale del paese, klix, gli dedica in media un articolo ogni due giorni. L’ultimo, in ordine di tempo, sostiene che Edin ha già preso casa vicino a quella di Pjanić.
Kloc cerca di ricambiare tante attenzioni, parla costantemente del suo Paese, s’impegna in attività umanitarie (da anni è ambasciatore dell’Unicef in Bosnia Erzegovina), vuole dimostrare ai propri connazionali che in fondo lui non si sente troppo diverso da tutti quei bosniaci che sono stati costretti a emigrare per guadagnarsi da vivere all’estero. Solo che lui lo fa, certo, col pallone tra i piedi. Džeko è uno che quando segnava in Inghilterra sfoggiava magliette con su scritto: za moje mahalce, questo gol è “per i miei vicini”, espressione che però a Sarajevo ha un senso più familiare, più raccolto rispetto al suo equivalente italiano. La mahala, il piccolo quartiere, è letteralmente il luogo dove tutti si conoscono, dove sei cresciuto e dove la gente sa tutto di te. Dove hai lasciato il cuore. Più che di vicinato, è questione di Heimat.
In una giornata del 1993 sua madre Belma insiste più del solito perché non vada a giocare a calcio con gli amici e resti in casa. Edin per una volta obbedisce, per quanto di malavoglia. Solo qualche minuto più tardi, tre granate si abbattono sul campetto
La mahala di Edin è a Otoka, quartiere popolare di Sarajevo che lui non ha abbandonato nemmeno durante l’assedio. A differenza di altri campioni bosniaci di oggi, Džeko è infatti cresciuto con la guerra. Di questo periodo è l’aneddoto più famoso, raccontato dettagliatamente dai suoi amici e dai familiari: in una giornata del 1993 – Edin non ha che sette anni – sua madre Belma insiste più del solito perché non vada a giocare a calcio con gli amici e resti in casa. «Avevo una strana sensazione, quasi un groppo allo stomaco – racconterà la donna nel 2009 al Bild tedesco – Nella guerra avevamo perso la nostra abitazione, molti dei nostri familiari erano morti». Edin per una volta obbedisce, per quanto di malavoglia. Solo qualche minuto più tardi, tre granate si abbattono sul campetto. «Quel giorno ho perso molti amici», ricorda.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
La memoria del conflitto, che causò più di undicimila vittime tra gli abitanti di Sarajevo, è una pagina importante della sua biografia. «La guerra ha reso Edin estremamente forte dal punto di vista mentale», ha raccontato Muhamed Konjić, ex giocatore del Monaco in un vecchio articolo per il francese So Foot. Konjić è stato uno dei primi giocatori ad avere indossato la maglia della nazionale bosniaca, dopo la fine del conflitto. «Rispetto ai calciatori della mia generazione, lui è completamente diverso». «Erano anni difficilissimi – riconobbe Džeko nel 2011 – Dovevamo costantemente stare attenti, schivare le pallottole e le granate. Non c’era niente da mangiare, si viveva in quindici in una stanza sola. Era impossibile».
«Erano anni difficilissimi – riconobbe Džeko nel 2011 – Dovevamo costantemente stare attenti, schivare le pallottole e le granate. Non c’era niente da mangiare, si viveva in quindici in una stanza sola. Era impossibile»
Džeko cresce nella Bosnia Erzegovina della ricostruzione, è un bravo ragazzo, disciplinato, con la testa sulle spalle. La fortuna, per lui, ha il nome di Jusuf Šehović, l’allenatore delle giovanili dello Željezničar di Sarajevo che lo scopre, e di Amar Osim, che lo porta in prima squadra appena diciassettenne e lo fa giocare centrocampista. Sono anni impegnativi, scrive il francese Loic Tregoures nel già citato articolo per So Foot. Il giovane Džeko ama il Milan, sogna di essere il prossimo Shevchenko ma la pubertà «lo condanna a diventare un Peter Crouch», mettendogli di colpo quindici centimetri di più sulle spalle e trasformandolo per l’appunto in Kloc, l’imbranato lampione, come lo soprannominano i tifosi.
Per trasformare Kloc in Dijamant, il diamante, come lo chiamano ora, è necessaria la comparsa sulla scena del tecnico ceco Jiri Plisek. Osim nel 2005 parte per il Giappone e Plisek, per quattro mesi, allena lo Željezničar. Quando se ne va, ritornando in patria, porta con sé il giovane bosniaco. Plisek trova al ragazzo il suo ruolo naturale, quello di punta: con 22 goal in due stagioni, segnati con addosso la maglia del Teplice e del Usti nad Labem, Edin è pronto per l’Europa del calcio che conta. Nell’estate del 2007 firma col Wolfsburg, dove è determinante per conquistare una Bundesliga, l’unica vinta dalla squadra nella sua storia, e dove nel 2010 s’impone come capocannoniere del torneo, con 22 gol.
I cinque anni dal 2010 a oggi hanno imposto il ragazzo cresciuto sotto le bombe a Sarajevo all’attenzione delle squadre e del pubblico di tutto il mondo. In Inghilterra, col Manchester City, Edin Džeko ha segnato cinquanta gol in 130 gare, e probabilmente solo il sovraffollamento in attacco (con nomi come Aguero, Tevez e Nasri) gli ha impedito di ottenere dei risultati ancora migliori.
Il traguardo più importante, però, è quello che gli ha permesso – con nove reti nella fase di qualificazione – di portare la Bosnia Erzegovina ai mondiali dello scorso anno, in Brasile. Un’avventura che per moltissimi cittadini del paese aveva rappresentato, al di là del magro risultato finale, l’unica nota positiva in un presente dominato dalle difficoltà. Al mondiale Džeko aveva segnato anche in occasione dell’unica vittoria della nazionale, un 3-1 inflitto all’Iran. «Andare in Brasile è stato un motivo d’orgoglio per tutto il nostro Paese – aveva detto alla fine della competizione – siamo una nazione molto piccola, ma tra di noi ci sono tantissimi tifosi». Da oggi i loro occhi saranno rivolti anche ai campi della Serie A, in attesa di celebrare il prossimo gol di Edin, il figlio buono di Sarajevo, lampione che è riuscito a diventare diamante.