A inizio agosto il parlamento kosovaro ha approvato la costituzione di un “tribunale speciale” che dovrà indagare sui crimini di guerra commessi da esponenti dell’ex esercito di liberazione del Kosovo, l’Uçk. Una decisione che ha generato delle grandi perplessità nell’opinione pubblica, e i cui esiti restano comunque incerti in un Paese che deve ancora risolvere la questione dei legami del proprio establishment con il crimine organizzato.
La decisione, presa lo scorso 3 agosto dal parlamento di Pristina, in Kosovo, è il punto d’arrivo di un percorso iniziato, anni addietro, con il rapporto Marty. Vale la pena ricordarne le tappe: nel 2008 viene pubblicato in Italia il libro “La Caccia”, che racconta le memorie di Carla Del Ponte sui suoi anni trascorsi come procuratore al Tribunale penale per i crimini commessi in ex Jugoslavia (TPI). Nel libro, Del Ponte denunciava pubblicamente il fatto che, durante la guerra in Kosovo (nel 1999) e nel periodo immediatamente successivo, alcuni militari e quadri al vertice dell’Uçk si fossero macchiati di crimini contro l’umanità, soprattutto nel caso del traffico di organi, prelevati a prigionieri serbi e a rom e albanesi kosovari accusati di “collaborazionismo” nei confronti di Belgrado.
Dopo queste rivelazioni, il Consiglio decide, nel 2008, di incaricare un politico svizzero, Dick Marty, di investigare sulla questione. La ricerca di Marty dura due anni. Nel 2010 sottopone i risultati, e le conclusioni del suo rapporto confermano che «circa cinquecento persone scomparse, in maggioranza serbi di Kosovo, sarebbero stati vittime di traffico di organi» e che «le autorità internazionali, essendo state obbligate durante la ricostruzione a contare sulla collaborazione degli ex responsabili dell’Uçk, non hanno mai perseguito seriamente questi crimini».
Al vertice di questa rete criminale si troverebbe Hashim Thaçi, uno dei politici più influenti e discussi del Kosovo indipendente, leader del Partito Democratico del Kosovo (PDK), ex primo ministro e attuale Ministro degli esteri, nonché vice premier. Mai formalmente accusato né indagato, è stato – piuttosto ironicamente – proprio Thaçi il più entusiasta sostenitore della formazione del tribunale («Una tappa importante per fare chiarezza e per mettere fine a delle accuse infondate», l’aveva definita un anno fa) e a farsene promotore in parlamento, cercando di convincere i suoi più riottosi subalterni di partito a votare in favore della sua costituzione.
Durante la guerra in Kosovo (nel 1999) e nel periodo immediatamente successivo, alcuni militari e quadri al vertice dell’Uçk si fossero macchiati di crimini contro l’umanità, soprattutto nel caso del traffico di organi, prelevati a prigionieri serbi e a rom
La prima votazione, alla fine di luglio, aveva avuto un esito negativo. Ma la seconda sessione, quella d’inizio agosto, ha avuto successo: il tribunale si farà, anche se resta da decidere come dovrà funzionare (restano aperte, per esempio, le questioni relative alla selezione di giudici e procuratori). I lavori potrebbero cominciare già nel 2016.
Non tutti sono soddisfatti della decisione. Per esempio, i commentatori internazionali che non possono fare a meno di sottolineare le contraddizioni esistenti nel progetto: se Thaçi stesso è il primo sostenitore dell’iniziativa, non è forse questo già un indizio di come la corte sia destinata fin dal principio ad assolvere gli imputati? «Si tratta di una domanda legittima, alla quale però non è possibile ancora dare risposte», ha recentemente scritto Andrea Lorenzo Capussela, fino a qualche anno fa a capo dell’ICO (International Civilian Office) nel Paese.
Altre perplessità, sempre secondo Capussela, sorgerebbero per il fatto che «il tribunale violerebbe il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini». A parità di crimine commesso, infatti, «chi è nominato nel rapporto Marty verrà giudicato da strutture diverse». Infine – conclude – non si può non ravvisare come questo tribunale creato “ad hoc, ex post” sarà in fondo stabilito «per ovviare alle mancanze dell’Occidente», che finora – nonostante disponesse di tutti i poteri e delle informazioni necessarie a perseguire i crimini sopra citati – ha preferito fare finta di nulla.
Al vertice della rete criminale di traffico di organi si troverebbe Hashim Thaçi, uno dei politici più influenti e discussi del Kosovo indipendente, leader del Partito Democratico del Kosovo (PDK), ex primo ministro e attuale Ministro degli esteri, nonché vice premier
L’idea di un tribunale speciale per i crimini di guerra in Kosovo non è piaciuta nemmeno ai partiti dell’opposizione, soprattutto agli schieramenti che chiedono la completa indipendenza del Paese, il cui status è ancora controverso: il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria secessione dalla Serbia nel 2008 e Belgrado, così come alcuni governi europei, si rifiuta di riconoscerla.
«Qui c’è bisogno di tribunali normali, non speciali», ha dichiarato il deputato Albin Kurti di Vetevendosje! (Indipendenza!), un partito radicale indipendentista. «Un tribunale speciale così concepito si situerà invece al di fuori del sistema costituzionale del paese, sarà una specie di Guantanamo». Secondo l’opinione dei militanti di Vetevendosje!, così come dei loro colleghi dell’opposizione, l’opzione migliore sarebbe di istituire un organo giudiziario kosovaro al 100%, il cui mandato non si limiti per forza ai soli crimini dell’Uçk. Era questa d’altronde la soluzione, citata anche da Capussela, proposta da un’importante giornalista kosovara, Jeta Xharra, che in un proprio editoriale dal titolo “Il Kosovo deve portare fuori da sé la propria spazzatura” aveva indicato la ricetta da seguire: Pristina dovrebbe perseguire autonomamente i colpevoli dei crimini di guerra contro i Serbi, e l’Occidente da parte sua dovrebbe essere irremovibile nell’affermare che, qualora i verdetti di Pristina non fossero imparziali, ritirerebbe il proprio sostegno al paese.
In realtà, se le istituzioni del Kosovo non sono ancora sufficientemente indipendenti e affidabili da poter garantire un giudizio oggettivo e imparziale sui crimini commessi dall’Uçk, è proprio in parte dovuto anche alla Comunità internazionale e all’Unione Europea, che hanno scelto di favorire la permanenza al potere di individui ambigui e compromessi come Thaçi, sfruttando anzi il processo – tuttora in corso – di institutional building in Kosovo per fare i propri interessi.
Ci si riferisce, in particolare, alle colpe e alle mancanze della missione Eulex, che avrebbe dovuto assistere il ramo giudiziario e di polizia nel paese, e che invece si ritrova dopo sette anni di attività (la missione è iniziata nel 2008) con un bilancio piuttosto magro e con enormi sospetti di corruzione a proprio carico.
In Kosovo pare evidente che Eulex sia parte del problema, piuttosto che della soluzione. La missione, o comunque alcuni dei suoi alti funzionari, sembrano aver sviluppato un rapporto simbiotico con un sistema all’insegna del malaffare che invece avrebbero dovuto combattere
Nell’autunno 2014, il quotidiano locale Koha Ditore ha reso pubbliche delle dichiarazioni di Mariah Bamieh, procuratore speciale della missione, che accusava degli alti funzionari di Eulex di avere intascato tangenti per proteggere alcuni cittadini kosovari sospettati di omicidio e di corruzione. Solo pochi mesi fa, una commissione d’inchiesta inviata da Bruxelles a fare luce su queste accuse aveva rilevato come il Pdk di Thaçi fosse già riuscito a infiltrare, a suon di bustarelle, i ranghi della missione (e soprattutto a guadagnarsi i favori di uno dei suoi ex capi, il francese Bernd Borchardt). Lo scopo sarebbe appunto quello di assicurarsi, in un modo o nell’altro, il controllo sul futuro tribunale speciale.
A ridimensionare lo scandalo ci ha pensato, parzialmente, il giurista francese Jean-Paul Jacqué. Ha smorzato le accuse mosse da Bamieh, rilevando però comunque l’esistenza di «gravi disfunzioni» all’interno della missione: «creata per garantire lo Stato di Diritto, è stata al contrario accusata di minarlo. La sua credibilità è stata fortemente danneggiata». Jacqué concludeva ricordando la necessità di riforme urgenti all’interno di Eulex, «condizione necessaria affinché essa continui ad avere un senso».
A fronte di questa mole di rivelazioni, nessuna risposta concreta è arrivata da Bruxelles né tantomeno da Federica Mogherini, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Il fatto è che in Kosovo pare evidente che Eulex sia parte del problema, piuttosto che della soluzione. La missione, o comunque alcuni dei suoi alti funzionari, sembrano aver sviluppato un rapporto simbiotico con un sistema all’insegna del malaffare che invece avrebbero dovuto combattere.
In questo contesto è difficile sapere se la decisione di istituire il tribunale speciale avrà degli effetti positivi, oppure se si ridurrà a un teatrino inconcludente. «La nostra società è arrivata al limite della crisi di nervi», ha dichiarato al francese Courrier des Balkans Dukagjin Gorani, sociologo e giornalista kosovaro: «Non so se questo tribunale speciale servirà a qualcosa, onestamente. Per saperlo, occorrerà attendere fino a che i primi atti d’accusa saranno resi pubblici … probabilmente in autunno. A quel punto però, se verranno portate in tribunale delle personalità politiche di primo piano, il paese rischierà seriamente la paralisi istituzionale».