Hanno tutti gli occhi fissi sulle vetrine delle loro librerie preferite. «Amore non è la prima parola che viene in mente quando si pensa a Jonathan Franzen», scrive Christian Lorentzen su Vulture. E poi domanda ai suoi lettori: «Quanto bene gli volete? Quanto bene gli vuole l’America?». Leah Greenblatt su Entertainment Weekly : «È in arrivo un nuovo romanzo di Franzen. Prepariamoci a banchettare». Curtis Sittenfeld sul Guardian : «Arrivata a pagina 207 di Purity, ho fatto una cosa che non avrei mai pensato di fare. Ho fotografato il paragrafo e l’ho twittato». Aspettano come si aspetta un temporale, contando lo spazio che corre tra il lampo e il tuono per sapere quanto è vicino. Non hanno esattamente il fiato sospeso, ma tutto intorno all’uscita del nuovo romanzo di Franzen la critica è in riverente, paziente, devota, vibrante attesa. Sanno che potrebbe essere il suo migliore e sanno anche che cosa significa.
Franzen ha cominciato a costruire la suspense per il Grande Romanzo Americano quasi vent’anni fa
Franzen ha cominciato a costruire la suspense per il Grande Romanzo Americano quasi vent’anni fa. In un’epoca in cui era frustrato per lo scarso successo di critica che i suoi primi libri stavano riscuotendo e non faceva che lamentarsi del decadimento del ruolo dei romanzi nel panorama culturale — che ora suona un po’ come una scusa. Era talmente innervosito dalla sua mancanza di aderenza al pubblico da non riuscire a controllare le emozioni e da fare la figura dell’isterico con la stampa, che ha cominciato a considerarlo uno stronzo. Lo è. Ma è anche molto ben preparato e uno scrittore eccezionale per cui, quando ha deciso di rivedere la sua scrittura lo ha fatto completamente e — a tredici anni da La ventisettesima città (Einaudi, 2002, traduzione di Ranieri Carano), il suo romanzo di esordio, e a nove da Forte movimento (Einaudi, 2004, traduzione di Silvia Pareschi) — ha aggiustato il tiro, mettendo in Le correzioni (Einaudi, 2002, traduzione di Silvia Pareschi) tutti gli elementi che pensava potessero formare un successo. Ci ha visto bene, ma non del tutto. Ha vinto il National Book Award e la stampa gli si è schierata a favore, ma il pubblico sembrava ancora poco propenso a lasciarsi completamente andare a un libro di seicento pagine di forte critica sociale.
Ha continuato a fare lo stronzo e a cercare il modo di non perdere neanche una minima percentuale del lettorato americano. L’episodio più famoso attorno a Le correzioni è anche quello che, se non si fosse fatto prendere dal nervosismo, lo avrebbe probabilmente condotto velocemente dove voleva arrivare. Nel 2001 il romanzo è stato selezionato da Oprah Winfrey per il suo Book Club: un passaggio privilegiato verso l’affermazione. Però Franzen si è messo in testa che il marchio di Oprah sulla copertina lo avrebbe reso un “libro da donne”, qualsiasi cosa voglia dire, e che gli uomini avrebbero smesso di comprarlo. La sua “creatura”, come aveva preso a chiamare il romanzo in quel periodo, secondo lui rischiava di rimanere ignota a una buona metà del lettorato statunitense. Per rispondere a Lorentzen: se volergli bene significa anche accettare questo genere di prese di posizione, allora sì, gliene vogliamo molto.
Ci ha messo altri nove anni a finire il suo quarto libro e questa volta sembrava proprio che ce l’avesse fatta. Libertà (Einaudi, 2011, traduzione di Silvia Pareschi) è poco meno di un capolavoro e i lettori avevano preso a rispondere univocamente. La stampa era in visibilio e Philip Roth lo aveva definito il più grande scrittore della sua generazione. È diventato il primo romanziere a comparire sulla copertina di Time dopo undici anni dal turno di Stephen King e per lui questo aveva un duplice significato: non soltanto era riuscito nel suo intento di grandezza, ma aveva anche compiuto l’impresa di farsi affiancare al re dell’intrattenimento letterario con un romanzo corale su una famiglia disfunzionale americana. Il ruolo della narrativa, ristabilito.
Da molti anni aveva cominciato a elargire consigli e aforismi dal tono profetico sulla vita, sull’arte e sulla letteratura. Il più famoso è probabilmente contenuto nel saggio Perchance to Dream, pubblicato da Harper’s nel 1996: «Il romanzo deve essere uno strumento di intrattenimento». A questo ha lavorato per tutto il corso della sua carriera, e si può dire che con Libertà ci sia arrivato più vicino che mai. Rispetto a Le correzioni, che ancora risentiva di una certa complessità contenutistica che lo toglieva alla portata del grande pubblico, Libertà aveva trovato una lingua universale capace di mettere d’accordo, se non tutti, per lo meno la maggioranza influente. Ma ancora non era abbastanza.
Ora che Purity è dietro l’angolo e che abbiamo imparato ad avere a che fare con anni di attese sfinenti e uscite infelici, la domanda è una sola: sarà quello che stiamo aspettando? Sarà il Grande Romanzo Americano che tutti sogniamo da un’eternità?
Il Grande Romanzo Americano è come il Messia: tutti lo aspettano ma in pochi credono davvero che arriverà
Una storiella: in uno Stetl dell’Est Europa, isolato da tutto e da tutti, a più di due giorni dal villaggio più vicino, i saggi sono preoccupati. «Come faremo a sapere se viene o no il Messia? Siamo talmente lontani da tutto che rischiamo di rimanere tagliati fuori!», dicono. E cercano freneticamente una soluzione. Dopo qualche giorno di studio, la soluzione arriva. Decidono di costruire una torre di guardia ai limiti del villaggio, abbastanza alta da scorgere la città più vicina, così da essere informati immediatamente in caso il Messia si facesse vivo. «Ma chi possiamo mandare lassù? Siamo in pochi e ognuno è necessario!». Ci vogliono altri giorni per partorire la decisione, ma alla fine appare chiara: «Mandiamo il Putz, lo scemo del villaggio». E così, lo scemo si mette di vedetta per il Messia. Giorno e notte, senza scendere nemmeno per i pasti, che gli vengono portati da un volontario di volta in volta. Un giorno, un viandante passa per lo Stetl e vedendo lo scemo sulla torre gli chiede: «Cosa fai lassù?». «Aspetto il Messia». «E non scendi mai?». «Mai». «Devono pagarti molto bene!». «Oh, no. Non mi danno niente». «E allora, perché lo fai?». «Così ho un lavoro sicuro per tutta la vita».
Ecco, il Grande Romanzo Americano è come il Messia: tutti lo aspettano ma in pochi credono davvero che arriverà. Franzen si è ritagliato un lavoro sicuro per tutta la vita, quello di perfezionarsi continuamente a caccia del libro definitivo. Crede che prima o poi potrà abbracciare la totalità del pubblico, quelli che per un po’ ha chiamato “amici”. Ha cominciato a farlo quando ha smesso di seguire l’ispirazione e ha accettato di darsi al calcolo, all’indagine di mercato, alla sistematica. Quando ha cominciato a studiare i lettori e a tagliargli i libri addosso, aspirando alla precisione di un chirurgo con rudimenti di studi sociali, per imparare a parlare singolarmente a ognuno. Quando si è allontanato da sé, come giustamente sottolinea Francesco Pacifico su IL. Può darsi che il suo standard di perfezione sia inarrivabile, ma sicuramente la sua bravura sta facendo la felicità di molti e il suo obbiettivo di intrattenere non è l’idea più sbagliata che potesse passargli per la testa. Se anche Purity si piazzerà appena sotto al livello di Libertà, ci sarà andata bene un’altra volta e potremo tornare ad avere fiducia per i prossimi dieci anni.
Resta l’ultima, grande, domanda dell’umanità: «E quando il Messia verrà, come faremo a riconoscerlo?». Non si può che rispondere con la logica del profeta: «È semplice: dopo che sarà venuto, non avremo più nulla da aspettare».