Sud, Expo e precariato: le “mille patrie” di Levi sono sempre attuali

Sud, Expo e precariato: le “mille patrie” di Levi sono sempre attuali

Nei giorni in cui piovono gli allarmi sul Sud Italia, a caduta libera nel precipizio della crisi, può essere utile riprendere le splendide pagine di Le mille patrie. Uomini, fatti e paesi d’Italia di Carlo Levi, che la Donzelli ha appena ripubblicato. Il libro raccoglie numerosi articoli e reportage del grande scrittore, realizzati tra l’immediato dopoguerra e i primi anni Sessanta, che ci restituiscono il ritratto di un’Italia multipolare i cui tratti paiono riproporsi, pur in mutati contesti, ancora oggi. 

Non c’è solo Sud, nonostante Levi sia notoriamente associato al capolavoro della letteratura meridionalistica Cristo si è fermato a Eboli, frettolosamente derubricato all’area del neorealismo, quando invece dipinge (termine obbligatorio vista la larga piattaforma espressiva di Levi, anche ottimo pittore) un quadro assai più complesso del Mezzogiorno, restituendone il repertorio mitografico, ideologico, iconologico

Levi in Le mille patrie scatta istantanee in tutta la Penisola, di cui coglie la cultura e l’eterna inquietudine politica, aspetto questo approfondito soprattutto nel romanzo L’orologio, l’altra sua opera capitale, di nuovo sospesa tra affresco e autobiografia, centrata sull’uscita dal fascismo e la breve stagione di governo di Parri, “crisantemo sopra un letamaio”, sotto le insegne dell’incompiuto e presto svanito Partito d’Azione di cui Levi fu dirigente per poi distaccarsene. Memorabile già solo l’incipit di quel romanzo: “La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case”. E in questa giungla dell’antichità oggi non stupisce poi tanto incontrare una Mafia Capitale.

«La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani»

Levi, ebreo torinese del 1902, uomo di ampia versatilità culturale tanto umanistica quanto scientifica (era medico, ma preferì assai presto la pittura e insieme la scrittura), era nato nella tradizione riformista settentrionale, anche per via di sangue, essendo nipote del leader socialista Claudio Treves; perseguitato e fuggiasco sotto il fascismo, confinato in Lucania (dal che il “Cristo”) e imprigionato, militò nel Pd’A, che lasciò per avvicinarsi da indipendente al Partito comunista, con cui entrò in Parlamento per due legislature negli anni Sessanta. 

Insomma, figura sfaccettata, di vasti interessi e lunghe vedute, che lampeggiano in questo Le mille patrie: sono testi scritti per la mitica Life americana, per la La Stampa, per Il Giorno, estratti dalla sua corposa produzione giornalistica, dispiegata e – talora – dispersa su una miriade di testate di vari tipo e rilievo. Resta comunque il Mezzogiorno il suo luogo del cuore, del tutto fuori di retorica: Levi volle essere sepolto (morì a Roma nel 1975) in un’austera tomba semitica, proprio ad Aliano, paese del suo confino lucano, affacciato sulla distesa dei calanchi, dove la natura gioca scenograficamente tra il canyon e una specie di magico lembo di Luna. 

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

È il Sud dei paesi che “stanno in cima ai monti, come città d’aria”, in un isolamento remoto, nella tenaglia del “blocco agrario” (definizione che fu di Dorso e prima di Gramsci: azionismo e comunismo, tenuti insieme proprio da Levi) ma è un Sud non staccato dalla Storia, che da qui traccia la biblica rotta dell’emigrazione verso il “mito americano”, irrorato tra la via Appia e il West, sogno di un Eden in terra, tanto “che molte strade di paese, malgrado il periodo fascista, portano nomi americani, come via Washington, che si trova spesso in Puglia, Basilicata e Calabria”, e “il ritratto del presidente Roosevelt è presente nelle case di tutti i contadini” come un santo protettore d’oltremare, e “la Statua della Libertà del porto di New York è per il contadino l’immagine della Madonna” sicché “nelle elezioni amministrative i partiti di sinistra, nelle Puglie, si sono riuniti in una lista che aveva a contrassegno proprio la Statua della libertà; e la lista ha vinto, contro quella dei baroni e degli agrari, perché i contadini hanno votato per la Madonna liberatrice”.

Levi, vicino al comunismo italiano ma nemico del luogocomunismo italico, non si adagia nella molle solarità del Mezzogiorno, sicché “per chi venga dal Sud in bianco e nero, e porti nella mente la sua immagine drammatica e scolorata di neri occhi, neri cappelli, veli neri e ombre nere, la mia materna campagna in Piemonte, così come s’apre allo sguardo scendendo la collina torinese verso le Langhe, deve apparire come un verde e melanconico e esotico paradiso dell’infanzia”. 

Levi, vicino al comunismo italiano ma nemico del luogocomunismo italico, non si adagia nella molle solarità del Mezzogiorno

È il Piemonte del presidente Einaudi, che Levi ricorda con infinita ammirazione in un pezzo sui suoi funerali contadini e aristocratici insieme a Dogliani; è la Torino dell’infanzia, illuminata in un pezzo che rievoca l’Expo del 1911, quello del cinquantenario dell’Italia unita. Era l’Esposizione dell’Industria e il Lavoro, “estesa per tutto il Valentino, da Corso Vittorio a Ponte Isabella” che “esaltava, nelle forme del liberty, l’idea del progresso, le meraviglie della tecnica, della libertà, della pace”, tra l’Argentina con ogni sorta di grano e bestiame delle Pampas, la Francia con la sua moda e “il Brasile, meraviglioso di legnami esotici”, per giungere infine all’unica eccezione: “La Germania non esponeva merci, né macchine, né libri, né frutti della terra, della natura e del lavoro. Era un immenso salone tetro dove stavano allineati i modelli in argento massiccio di tutte le navi della flotta da guerra tedesca: corazzate, incrociatori, torpedinieri. Sulla parete di fondo grandeggiava una statua dorata del Kaiser Guglielmo II, con i baffi ritti e l’elmo chiodato, e attorno era scritto il motto anseatico: navigare necesse est vivere non necesse. Si affermava per la prima volta la volontà suicida che per altri cinquant’anni ha costretto il mondo alla guerra”. Chissà, a volerlo scrutare bene, quali profezie reca questo Expo 2015 di Milano…

E potremmo continuare con la straniante descrizione dell’Altare della Patria a Roma, “incubo accademico, neoclassico e surrealista, complicato di simboli vuoti, concrezione di pietra senza colore di tutte le parole, di tutta la retorica, di tutte le deficienze, le ambizioni, le inesistenze, le solidarietà, i morti residui della vita del nostro paese”, “l’immagine di una ‘irrealtà’, l’incarnazione plastica di una bugia, meglio di una finzione, ‘la Patria di marmo’”.  E ancora, il viaggio a Lercara Friddi, il paese del gangster espatriato Lucky Luciano e delle miniere di zolfo, “bocche nascoste d’inferno”, dove i lavoratori ridotti per secoli a schiavi trovano un riscatto nella cultura operaia e, più spesso, nell’emigrazione. Oppure il popolo dei senza lavoro vero, dei precari a vita, il mondo di quelli che “escono alla mattina” (Levi chiese a un ragazzo a Napoli, nella formicolante Porta Capuana, che lavoro facesse il padre e lui rispose appunto: “esce alla mattina!”). 

Ci piace infine concludere con il racconto da Catania, dove Levi si fa reporter demartiniano, nordico e partecipe esploratore dell’inconscio collettivo meridionale: “La notte, Catania non si addormenta. A tutte le ore trovi gente che si attarda, cammina, si ferma per le strade, come per sfogare una vitalità, fisica e nervosa e astratta, cui il giorno non basta. (..) A un tratto, sbucato d’improvviso dal buio, sotto l’arco di Porta Uzeda, un uomo seminudo, coi piedi scalzi che spuntavano dalle brache bianche, apparì correndo. Davanti ai giardini della chiesa si inginocchiò un momento, si rialzò, ricominciò a correre su per la via Etnea gridando di continuo, a voce alta ed esaltata ‘Sant’Alfio, Sant’Alfio!’.

Era il principio della ‘chianata d’i nudi’, della corsa sacra dei nudi, dei devoti di Sant’Alfio, verso Trecastagni. Sono i muti che vogliono riavere la parola, i malati, gli erniosi, quelli che hanno fatto un voto, che corrono senza sosta con i loro ceri verso la chiesa del santo, distante di qui 18 chilometri. A Trecastagni escono i tre santi: Sant’Alfio, coi suoi fratelli minori, San Filadelfio e San Cirino. Una batteria di cannoni, orizzontali sui campanili, comincia a sparare bombe fragorose e mortaretti. Ed ecco, verso l’Etna, comincia, tutto attorno al paese, il fuoco d’artificio: un fuoco immenso, che si prolunga coi suoi scoppi coprendo il cielo di girandole di fumo: un bombardamento enorme, che avvolge e chiude le grida e le campane, e fa battere i cuori di una sorta di terrore, fino al colpo finale che scioglie l’incanto e l’orgasmo. I tre santi si avviano per le strade. ‘Sant’A’!'”.

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