L’esito del Consiglio dei ministri dell’interno dei paesi dell’Unione Europea – sì alla ricollocazione di 120mila profughi, ma senza unanimità per il voto contrario di Ungheria, Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia – non può essere ritenuto un successo. Non lo è perché l’Europa è una costruzione ancora troppo fragile per poter affrontare un dramma come quello dei rifugiati nel modo con cui è stata affrontata la crisi dei debiti sovrani. Ricordiamo tutti come la crisi greca abbia contagiato l’intera eurozona a causa del procedere per tentativi da parte dei paesi europei. Vertice dopo vertice sono passati cinque anni e la Grecia è ancora sul tavolo operatorio. Se questo dovesse accadere con il problema dei rifugiati, tra cinque anni sul tavolo operatorio ci sarebbe l’Europa.
Il primo problema, non dovremmo dimenticarlo mai, attiene alle dimensioni epocali del fenomeno. Perché – forse ce lo dobbiamo dire – è un movimento migratorio globale, come pochi se ne sono visti prima. L’Ocse, nel documento sulle stime migratorie presentato martedì 22 settembre, calcola in un milione circa le richieste di asilo per il solo 2015, 350-400mila delle quali saranno accolte. Mentre il secondo rapporto sulla protezione internazionale elaborato da Anci, Caritas Migrantes e numerosi altri partner, stima anche che solo un profugo su dieci si metta in viaggio per l’Europa. In larga parte, i profughi, sono ospitati in paesi in via di sviluppo, in particolare Turchia, Pakistan, Libano e Iran, che ne ospitano il 36% del totale, cioe’ circa 5,2 milioni di persone. A loro, bisogna aggiungere i migranti economici, la cui “differenza” non è così netta, perlomeno per quanto attiene alle condizioni economiche e umane. In altre parole, dire che si vogliono aprire le frontiere ai “veri” rifugiati non è sufficiente. Definire una politica di redistribuzione per i soli “rifugiati” non è sufficiente.
Pensiamo davvero che sia possibile in Europa sopportare anche solo l’esistenza di campi profughi come quelli che si trovano sparsi per le zone di guerra del terzo mondo?
Il secondo problema è che non si sa che fare e come farlo. Certo, possiamo fare paragoni tra i relativamente bassi livelli di accoglienza dell’Europa, con quelli dei paesi confinanti alle zone di guerra come Iran e Libano per convincerci che stiamo facendo troppo poco, ma non possiamo nasconderci dietro a un dito. I nostri standard di accoglienza sono fisiologicamente più alti, perché diversi sono gli standard sociali su cui definiamo l’integrazione e diversa è la nostra sensibilità relativa ai diritti delle persone. Pensiamo davvero che sia possibile in Europa sopprtare anche solo l’esistenza di campi profughi come quelli che si trovano sparsi per le zone di guerra del Terzo Mondo? E come sarebbero i famosi “hotspot” che l’Europa vorrebbe venissero costruiti in Italia, in Grecia, in Ungheria per dividere i migranti economici dai rifugiati? Se molti descrivono il Cara di Mineo come un lager e vogliono chiuderlo, cosa ne diranno?
Non solo: come la mettiamo coi rimpatri? Parliamo di cerca 500.000 persone che (nel 2015) l’Ocse stima non otterranno il diritto all’asilo. Chi ha affrontato un viaggio di mesi, chi ha rischiato di morire in mezzo al mare o per mano dei trafficanti di esseri umani, chi ha perso amici o parenti prima di raggiungere la meta non accetterà di salire su un aereo e tornare a “casa”. Abbiamo ancora tutti negli occhi la scena di Angela Merkel e della ragazzina palestinese.
Se relativamente ai debiti sovrani, la spaccatura in Europa era tra paesi del nord e del sud del continente, oggi sui migranti la spaccatura è tra est e ovest
La spaccatura all’interno del continente è l‘utilmo dei problemi, ma oggi forse il più dirimente. Se relativamente ai debiti sovrani, la spaccatura in Europa era tra paesi del nord e del sud del continente, oggi sui migranti la spaccatura è tra est e ovest. Peraltro, anche all’interno del blocco dell’ovest, sotto la superficie, si nascondono profonde divisioni e perplessità, tenute a freno solo grazie a neanche troppo nascoste minacce di ritorsione economica da parte della Germania. La ricerca di una vera unità d’azione, oltre che di voto, non è un’operazione pleonastica in un contesto come quello europeo. L’Europa è una confederazione di Stati sovrani, non è una federazione. Su certe questioni, considerati vitali e attinenti alla sfera della sovranità nazionale, l’unanimità rappresenta non solo un valore in sé, ma una condizione necessaria per il successo e l’efficacia dell’azione nei confronti di una crisi così grave e travolgente.
Occorre capire, prima di condannare: quello che sta succedendo al confine balcanico dell’Europa mostra chiaramente che c’è qualcosa che non quadra nello storytelling di una Germania “buona” che si oppone ad un blocco di paesi dell’Est “cattivi”. Non si può liquidare la preoccupazione per la sicurezza dei confini come se si trattasse di una deriva anti-europea. Se i paesi meno ricchi e potenzialmente più esposti alla crisi dei profughi, si oppongono al piano di redistribuzione, qualcuno si è chiesto quali sono i loro veri timori? per quale motivo l’Ungheria si dovrebbe opporre al transito di migranti, se la Germania fosse disponibile ad organizzare sul proprio territorio gli hotspot per coloro che arrivano dalla rotta balcanica? In questo modo, sgraverebbe i “poveri” paesi dell’est dall’onere di organizzare i rimpatri per decine di migliaia di persone. E l’Ungheria non avrebbe più alcuna ragione di erigere l’odioso muro di filo spinato.
Questi sono punti fondamentali, a cui i leader europei chi si incontreranno oggi a Bruxelles devono dare una risposta, senza ipocrisie e con senso di realismo. Le foto, gli appelli alla solidarietà e gli slogan possono servire a convincere l’opinione pubblica della necessità di supportare un cambio di politica. Ma se la politica poi non c’è, il consenso rischia di svanire. E questo sarebbe un peccato gravissimo, perché, mai come ora, l’opinione pubblica europea sembra avere compreso che il problema dei migranti va affrontato con la “testa” e non con la “pancia”. Una finestra di opportunità che, temiamo, rimarrà aperta per molto poco.