Lo scrittore scozzese Neil Gunn, protagonista del periodo che tra gli anni Venti e Trenta è ricordato come Scottish Renaissance e fervente nazionalista, ha detto: «Due tradizioni non possono coesistere. Se una è destinata a emergere, l’altra lentamente soccomberà». Un anatema lanciato in direzione del destino della sua terra patria pensando alla necessità dell’unione con l’Inghilterra e all’impossibilità dell’indipendenza, che ben si adatta — con la dovuta modestia e revisione degli intenti — alla crescente popolarità dell’indie nel cinema americano.
La storia di Hollywood è tradizionalmente fatta di rivoluzioni tardive. Negli anni Settanta, una generazione di giovani registi inaugurata da Francis Ford Coppola, Martin Scorsese e Oliver Stone, ha ribaltato i tavoli restituendo alle grandi case di produzione la dignità di girare pellicole di altissima qualità dai costi relativamente ridotti, ma in grado di produrre un incasso da centinaia di milioni di dollari al botteghino. Col passare dei decenni, man mano che la notoriamente diffidente società dello spettacolo californiana accettava, incensava e consacrava i suoi nuovi talenti, i giovani hanno cominciato a invecchiare e i flop a moltiplicarsi. Il cinema impegnato si è lasciato scostare da un’ondata meno narrativa e più spettacolare. Intanto, la generazione di rincalzo era composta da chi fino ad allora non aveva trovato un posto nelle major e aveva dovuto, con più o meno successo, fare tutto da solo. I primi vagiti delle case di produzione indipendenti al traino di Quentin Tarantino, che nel 1994 avrebbe spostato il baricentro della cinematografia americana con Pulp Fiction, prodotto dalla sua A Band Apart; Spike Lee, che aveva sconquassato New York qualche anno prima con Fa’ la cosa giusta, 4 Acres and a Mule; e Spike Jonze, che alla fine del decennio avrebbe posto le basi per una nuova corrente intimista con Essere John Malkovich, Propaganda. Tutto intorno cominciavano ad affiorare i nomi di Wes Anderson, Larry Clark e Kevin Smith. Le produzioni si sganciavano dai grandi gruppi, ma le pellicole continuavano a essere distribuite in pompa magna: Miramax per Tarantino, Universal per Lee e Jonze. Le cose sarebbero cambiate, ma non subito.
Quando nel 2007 è stato presentato per la prima volta Juno al Toronto Film Festival, le major avevano già cominciato a disinteressarsi anche della distribuzione. Per girare la sceneggiatura che avrebbe incoronato Diablo Cody a regina pro tempore della celluloide, Jason Reitman aveva speso più o meno quanto Paramount aveva concesso per la prima parte del Padrino e avrebbe guadagnato per Searchlight, casa di distribuzione sotto l’egida Fox ma specializzata nell’indie, tanto quanto il capolavoro di Coppola. Nella standing ovation del pubblico entusiasta non stava solamente la nascita di un nuovo modo di raccontare, ma anche quella di una nuova ideologia estetica.
«Come costruire una casa con l’idea di venderla e non fare sapere a nessuno dove si trovi»
Negli ultimi dieci anni, l’indie ha masticato e rimasticato la propria notorietà in costante e colpevole equilibrio tra la celebrità e la particolarità per poi prendere una direzione diametralmente opposta da quella pronosticata dal successo globale di Juno. Le cifre si sono ridotte e le case di produzione si sono moltiplicate rivolgendosi a nicchie sempre più specializzate e ristrette. Nel 2010 Peter Broderik ha scritto, a beneficio dei registi che stavano imparando a sviluppare da soli le strategie di marketing una “Dichiarazione di indipendenza”, in cui operava l’importante distinzione tra il vecchio e il nuovo mondo della distribuzione. Nel vecchio mondo, i registi affidavano completamente i propri film alle grandi compagnie, cedendo i diritti. Nel nuovo mondo occorre conoscere il proprio pubblico, perché nessuno si prenderà la briga di soddisfarlo se non il regista stesso. Nell’epoca in cui tutti hanno a disposizione i mezzi per girare, l’unico fattore determinante per il successo di una pellicola è l’incisività della comunicazione una volta che il film sarà pronto ad affrontare le sale. La qualità, in definitiva, comincia a contare poco al di fuori della spettacolarità dei blockbuster hollywoodiani dagli effetti speciali strabilianti e dalla trama esile.
Ai festival che nei primi tempi della rivolta indipendente hanno fatto da incubatrici per i giovani talenti cinematografici, si sprecano i pronostici su quale sarà la nuova rivelazione senza contare che il panorama è frammentato in centinaia di minuscoli punti focali provenienti da tutto il mondo. All’ultimo Sundance la punta di diamante, osannata dalla critica presente, sembrava essere Me and Earl and the Dying Girl, diretto dal giovane e quasi totalmente sconosciuto Alfonso Gomez-Rejon e scritto dall’autore del romanzo omonimo Jesse Andrews. Sarà che la storia di Andrews non ha lo stesso appeal della travagliata storia di Cody, ma una volta uscito dal circuito dei festival il film si è trasformato in una delusione in grado di restituire solo per un soffio gli otto milioni di dollari che Indian Paintbrush ha investito per la produzione.
Il segreto di una buona distribuzione indipendente, secondo Broderik, è il riconoscimento della propria nicchia e l’abbandono dei sogni di una grandeur che non tornerà, se non in casi isolati ed eccezionali. L’epoca dei blockbuster narrativi è finita una decina di anni fa ed è cominciata quella dei nichebuster in grado di accontentarsi del profitto che possono produrre senza travalicare il pubblico per cui sono stati pensati. Se il sistema delle vecchie generazioni era quello di uniformare il gusto di spettatori e critica universale sotto il cappello di produzioni mastodontiche, quello della generazione presente è di sfaccettarsi e specializzarsi. La Brooklyn di Noah Baumbach, la Dallas di Jean Marc-Valleé e tutta la strada macinata da Sam Mendes dal capolavoro Away We Go. Il rischio, come spesso capita negli ambienti a conduzione familiare, è che ogni nicchia finisca per parlare a se stessa dimenticandosi dell’industria e che quindi imploda, smettendo di generare profitto. «Come costruire una casa con l’idea di venderla e non fare sapere a nessuno dove si trovi», scriveva Jason Brewer su Brolik. Insomma, Hollywood si sta rimpicciolendo ma, contrariamente al vecchio adagio, di storie ne ha ancora abbastanza da alimentare tante piccole realtà indipendenti, non più soltanto dalle grandi e malvagie case di produzione, ma l’una dall’altra.
Per tornare all’inizio di questo articolo: due tradizioni non possono convivere e il cinema americano non fa eccezione. Con l’emergere di una nuova generazione, la vecchia deve cedere il passo. Per quarant’anni è stata una questione di grandi movimenti capaci, spostando masse di pubblico e idee critiche, di cambiare la storia. Oggi il quadro generale è composto da tante piccole realtà, come i led in una composizione di arte moderna impossibile da cogliere nell’insieme, tutte più o meno in grado di costruirsi la propria fortuna fino agli occhi del visitatore o di spegnersi senza lo scalpore di uno schianto.