All’università, Frank Westerman ha studiato da ingegnere agrario, specializzato in ambienti tropicali. Eppure, a parte forse il fattore esotico, di lavoro fa tutt’altro. Da anni ormai Westerman fa il giornalista. Inviato in Jugoslavia e poi in Russia per alcuni quotidiani olandesi, Westerman da qualche tempo vive pubblicando i suoi reportage in forma di libri — Ararat, El Negro e io, Pura razza bianca e quest’ultimo L’enigma del lago rosso (Iperborea).
Westerman è giornalista di razza, ma di una razza molto particolare. È uno di quelli, insieme a Bruce Chatwin, Ryszard Kapuscinski, Robert Fisk o Emmanuel Carrère, che riesce a mettere insieme la profondità del reportage giornalistico con la potenza della narrazione, che la capacità di dire Io, ma nello stesso tempo l’onestà di non puntare all’oggettività, tanto da meritarsi la curiosa e un po’ cacofonica etichetta di “Giornalista-inchiestatore” usata da Goffredo Fofi, che de L’enigma del lago rosso ha scritto la postfazione.
L’enigma del lago rosso è un reportage molto particolare, che ruota intorno a una misteriosa tragedia che colpì la valle di Nyos, in Camerun, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto del 1986, quando si sentì un boato, il lago cambiò colore e oltre 1700 persone morirono in pochi minuti, senza che intorno a loro ci fossero i minimi segni di violenza, senza danni a case e oggetti. Solo morte, dovunque: uomini, donne, bambini, ma anche vacche, uccelli, cani e gatti. I primi soccorritori raccontarono di una scena surreale: un silenzio di tomba, cadaveri dappertutto, con nemmeno le mosche a ronzargli intorno. Erano morte anche loro.
I fatti ci sono, e sono sintetizzati nel lancio di agenzia della Reuters e della BBC che apre il libro. «Ma i fatti non parlano da soli», sostiene Westerman — che abbiamo incontrato a Milano in occasione dell’uscita del suo libro in Italia — «e con quei fatti ci si possono costruire tante storie diverse, dipende chi li mette insieme». E in questo caso infatti c’è la versione, anzi le versioni — diverse e in violenta lotta tra loro — degli scienziati, ma anche quella dei missionari e delle tribù della zona, versioni che si accavallano, si smentiscono e si scontrano.
Ne L’enigma del lago rosso la verità sembra sfuggire, come un grande puzzle che esiste soltanto nel tentativo della sua ricomposizione
È così che i fatti diventano storie, tra spiegazioni razionali e complottismi. E col tempo le storie diventano miti, la verità sembra sfuggire, come un grande puzzle che esiste soltanto nel tentativo della sua ricomposizione. Ma è proprio questo, il mito, la sua origine, la sua diffusione, «la sua persistenza nel mondo presente come qualcosa di inscindibile dall’uomo» scrive Fofi. Ed è questo, in fondo, il fulcro del libro e dell’intero lavoro di Frank Westerman, un giornalismo narrativo a base antropologica.
Come hai iniziato a fare il giornalista?
Studiavo agricoltura tropicale, ma poi ho mollato per un periodo e con i soldi che avevo messo da parte mi sono potuto pagare i primi viaggi. E viaggiando in America Latina, in Africa o in Asia, potevo vivere e viaggiare con molti meno soldi che mi servivano in Olanda. Poi quando sono tornato ho mandato quel che avevo prodotto a una quindicina di giornali. Le prime 15 risposte dei primi 15 direttori sono state negative, mi dicevano che le mie cose non erano male ma che non le avrebbero pubblicate. Mi consigliavano di riprovarci. In qualche modo mi incoraggiavano, ma non mi pubblicavano.
Poi che è successo?
Un’estate con un amico che faceva fotografie andammo in Spagna per due mesi, percorrendo tutto il Guadalquivir e facendo un reportage su quello che avevamo visto. Anche lì, una volta che lo mandammo ci risposero che era un lavoro carino, ma che non l’avrebbero pubblicato. Allora lo riscrissi e lo mandai ad altri. A un certo punto ci fu un elemento che destò l’attenzione di un direttore: il ducato di Alba, qualcosa come 17 generazioni di sangue blu e la duchessa — che è morta pochi mesi fa — all’epoca era persona più “nobile” della Terra, quella che aveva più titoli. Oriana Fallaci la intervistò e ne fece un bellissimo profilo. Suo figlio, quello che ora è il duca di Alba, si sposò quell’estate e noi riuscimmo a entrare come stampa, facendo qualche foto, ma senza riuscire a intervistarlo. Ora, devi sapere che quando in Olanda regnarono gli spagnoli, il Duca di Alba fu uno dei più crudeli sovrani, tanto che ci sono canzoni e racconti sulla sua cattiveria. Quando gli mandai il reportage e videro che eravamo andati al matrimonio nel nuovo duca di Alba mi dissero che quella parte poteva interessargli e mi chiesero se l’avevamo intervistato. Mi misi le mani nei capelli, però l’estate dopo andai di nuovo in Spagna e diedi una lettera per il duca al suo maggiordomo. Poi aspettai, e una settimana dopo il duca mi ricevette, parlai con lui e misi insieme l’intervista, le foto del suo matrimonio e la rimandai al giornale. La pubblicarono e me la pagarono. Iniziai così, nel frattempo terminai gli studi e cominciai a fare un po’ il copyrighter, un po’ il freelance. Questo è un lavoro che necessita pazienza e cocciutaggine, se vuoi farlo non devi mollare alle prime avversità.
«Il protagonista di una storia, di tutte le storie, è sempre un personaggio che ha qualcosa di speciale, che vive un dissidio, una lotta, una catarsi»
Una delle peculiarità dei tuoi reportage è l’uso della prima persona, nel solco di Kapuscinski, di Chatwin, di Fisk, di Carrère. Perché questa scelta?
Il protagonista di una storia, di tutte le storie, è sempre un personaggio che ha qualcosa di speciale, che vive un dissidio, una lotta, che ha un obiettivo o che attraversa un cambiamento, una catarsi. È questo che lo rende interessante. Sono le caratteristiche di un personaggio classico, che esistono da millenni, fin dall’epos antico, passando per le tragedie greche, per quelle shakespeariane, per le fiabe russe eccetera. In una storia è quello l’elemento fondamentale, e ogni tanto capita che quel personaggio sia tu che scrivi.
Come in Ararat?
Sì, esatto, prendiamo il caso di Ararat, che è un libro fondamentalmente su scienza e religione, ma che ha le sue radici nella mia storia personale. Io sono cresciuto in una famiglia molto religiosa, di confessione protestante. Ero credente, andavo in chiesa, leggevo la Bibbia. Ora non lo sono più e il viaggio che ho descritto in Ararat è quello che ho fatto per rispondere a una domanda: che cosa, o chi ha rimpiazzato il dio in cui credevo da bambino? Avevo una ricerca e una domanda. Ho scalato il monte Ararat e l’ho chiamato il pellegrinaggio di un non credente. In quel caso ero il protagonista perfetto per quello che volevo raccontare, perché avevo quelle caratteristiche.
«Quando si dice Io bisogna stare molto attenti a non non mettersi mai davanti a quello che vuoi raccontare, a non entrare nell’inquadratura»
Non hai paura di cadere nel protagonismo e di perdere di vista i fatti?
È un rischio, è vero, bisogna stare molto attenti a non oltrepassare una linea sottile e non mettersi mai davanti a quello che vuoi raccontare, a non entrare nell’inquadratura. Quando hai una domanda che ti insegue e sei in grado di non oltrepassare quella linea sottile, il lettore fa quello che fa con tutti i personaggi: ti segue, diventa il tuo compagno di viaggio. Quando uscì la recensione sull’Allgemeine Zeitung fui molto felice sia perché era positiva, sia perché il titolo era «E tu, come ti relazioni alla religione?». Come vedi la domanda è rivolta al lettore, al tu, e ciò significa che il libro ha funzionato, che la prima persona non l’ha soffocato, ma che anzi, ha messo in gioco gli altri Io, quelli dei lettori. Chiaro, il libro è su di me che scalo una montagna, ma la storia è “e tu, come ti relazioni alla religione?”. Era proprio l’obiettivo del mio libro.
«La narrativa è la spina dorsale di ogni storia e di ogni evento, e il mondo è tutto ciò che accade, evento dopo evento, storia dopo storia»
Cosa guadagna il giornalismo da questo approccio narrativo?
La narrativa è la spina dorsale di ogni storia e di ogni evento, e il mondo è tutto ciò che accade, evento dopo evento, storia dopo storia, anche la vita stessa di ognuno di noi è scandita da eventi che formano una storia e che di ogni storia hanno la struttura: c’è un inizio, c’è un dramma e c ‘è la fine, la morte. Già nel nostro DNA, nelle nostre vite abbiamo tutti gli ingredienti di una storia. Un giornalista deve sempre sapere che ci sono delle storie intorno a lui.
«i fatti da soli non sono niente, più che parlare a noi parlano attraverso di noi»
E i fatti?
Certo, ci sono i fatti, ma i fatti non parlano da soli. Lo si sente dire spesso, ma non è vero. Siamo noi che parliamo, che li sussurriamo, li ripetiamo, li leghiamo tra loro e li facciamo diventare storie. Ma i fatti da soli non sono niente, più che parlare a noi parlano attraverso di noi, perché le storie dipendono da chi le racconta.
Di questi tempi la velocità e la quantità sembrano i valori più importanti del giornalismo. C’è ancora spazio per la lentezza e la qualità?
Io non sono pessimista per niente. Quando si sono diffusi in tutto il mondo i fast food la gente ha iniziato a volere lo slow food, e si sono diffusi i ristoranti slow food. Sarà così anche per il giornalismo, che oggi sta andando veloce, sempre di più, e se tu, io, noi, seguiamo le news da tre o quattro siti ci sentiamo praticamente testimoni di quel che succede in real time. Ma poi quel flusso lo dobbiamo digerire, abbiamo bisogno di farlo, abbiamo bisogno di riflettere. È come i ristoranti slow food, ti siedi e mangi con calma prodotti scelti e cucinati con cura. E li digerisci. Io credo che la velocità di internet provocherà di riflesso il bisogno contrario di lentezza, di qualità, di sfumature, di profondità, di narrativa.
«Credo che la velocità di internet provocherà di riflesso il bisogno contrario di lentezza, di qualità, di sfumature, di profondità, di narrativa»
Le tue inchieste e i tuoi reportage richiedono tempo e soldi per essere portate a termine. In questo momento di crisi del settore e della pubblicità gli editori hanno ancora i soldi per questo genere di giornalismo?
Fondamentalmente ogni mio lavoro che porta a un libro si finanzia con il libro precedente. Con ogni libro riesco a finanziare le mie ricerche e i miei viaggi per i due o tre anni successivi in cui lavoro al libro successivo. È faticoso, certo, è in qualche modo un “equilibrio precario”, ma nel mio caso funziona.
Certamente non tutti riescono a poterlo fare, e io per questo mi sento molto fortunato, ma al di là della mia posizione personale, io credo che il pubblico, o almeno una parte di esso, abbia sempre di più voglia, ma anche necessità, di leggere contenuti scritti bene, approfonditi, di leggere delle storie. E quando c’è un bisogno c’è un mercato e io credo che si stia formando. Per questo per esempio ho investito dei soldi in una piattaforma editoriale online che si chiama Fosfor. Pubblichiamo un articolo inedito — un longread — e un “classico” del giornalismo al mese, e poi abbiamo una libreria di ebook a disposizione degli utenti. Tutto questo per 40 euro all’anno.
Però si continua a ripetere che il giornalismo è in crisi e che i lettori sono sempre di meno…
Sì, è vero, viviamo un’intensa crisi economica e, come tutti i periodi di crisi, si sta diffondendo un senso di insicurezza e di sconforto. Non so dirti per l’Italia, ma per l’Olanda ti posso dire che i lettori — anche se sono sempre di meno — sono sempre più attratti dalle storie vere, anche nella fiction. Non sono un sociologo, ma la mia sensazione è che visto che il mare sotto la barca su cui viaggiamo è sempre più agitato, sentiamo una crescente esigenza di avere un punto di fuga da guardare, e quel punto di fuga è la costa. Navighiamo a vista, ci fa sentire più sicuri perché è l’unica cosa che sta ferma. E quella costa è la realtà, le storie vere, le testimonianze, i reportage.
Quindi ad essere in crisi, più che i lettori, è un certo tipo di giornalismo?
Sì, c’è un certo giornalismo che sta perdendo autorità e capacità di presa sul pubblico. È quello che è legato sempre e comunque ai comunicati stampa, alle dichiarazioni, alle conferenze stampa, e si limita a scrivere quello che “fonti ufficiali dicono”. La gente è stufa di questo modo di raccontare le cose e vuole altro, cerca altre fonti. Questo da un certo punto di vista è una buona cosa, ma da un altro non lo è affatto, perché si può pubblicare di tutto, qualsiasi spazzatura. Guarda il caso delle teorie del complotto; quello che emerge dal mio ultimo libro, L’enigma del lago rosso, è che queste teorie, oggi, sono dei nuovi miti, parabole che raccontano della lotta tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato — lo scienziato diabolico che è venuto a fare i suoi esperimenti, o il test di una nuova arma di distruzione di massa —, hanno una morale — il governo non dice la verità — e chiamano all’azione — dobbiamo reagire. Tutti elementi che formano le mitologie di ogni tempo. In questi anni le teorie del complotto e della cospirazione hanno guadagnato tanto spazio, anche grazie a internet, e forse stanno prendendo lo spazio che una volta era proprio del mito.
«Dobbiamo partire dal presupposto che il lettore non è affatto stupido, statisticamente non lo è più di me o di te, e quindi anche lui ha una responsabilità»
I lettori sono in grado di capire la differenza tra verità e mito?
Secondo me dobbiamo partire dal presupposto che il lettore non è affatto stupido, o meglio, statisticamente non lo è più di me o di te, e quindi deve condividere con noi una parte della responsabilità sul come usufruisce delle notizie. È finito il tempo in cui la responsabilità era solo dei quotidiani, che avevano l’autorità di imporsi, ora i lettori devono metterci la loro parte. Perché non sono stupidi, e devono imparare a giudicare, a filtrare, a navigare: è il capitano della sua barca e naviga in un oceano immenso che si chiama informazione.
E dal punto di vista di chi scrive, cosa cambia?
Come narratore e come giornalista devi sempre essere onesto, e io non nascondo mai che non miro all’oggettività, ma alla soggettività. È la mia visione delle cose e ti invito a seguirmi, ma ti invito anche a dissentire, a criticarmi, ad avere un’opinione diversa da quella che ti propongo. Come lettore sei invitato a seguirmi, ma hai il sacrosanto diritto di dissentire.
In queste ultime settimane si è molto parlato della responsabilità dei giornalisti nel diffondere foto e video che possono urtare la sensibilità dei lettori. Che ne pensi?
In generale credo che ci sia il diritto di decidere che ci siano cose che non si possono mostrare: la violenza ai bambini, la pornografia o informazioni sensibili che possono mettere in pericolo qualcuno. Ma so bene che non è sempre facile.
«Come narratore e come giornalista devi sempre essere onesto, e io non nascondo mai che non miro all’oggettività, ma alla soggettività»
Ovvero?
Ti faccio un esempio: sei un giornalista che sta coprendo la notizia di un assalto con presa di ostaggi in una banca, e senti dagli investigatori che stanno per fare l’assalto. Se diffondi la notizia e cerchi di fare lo scoop metti a repentaglio la vita degli ostaggi e degli agenti che sono sul campo. In questo caso la scelta giusta, secondo me, sarebbe quella di mettere da parte per un attimo il tuo mestiere e pensare agli effetti sulla realtà. Ci sono casi come questo in cui è relativamente facile scegliere. Ma ce ne sono altri, e ce ne sono sempre di più — vedi i casi del bambino morto sulla spiaggia o del video dell’assassino dei due giornalisti — in cui la scelta è più complicata e sottile. È un dilemma, farlo o non farlo? Non lo so, è molto difficile rispondere, ma soprattutto credo sia impossibile trovare un principio che sia universale e sempre valido. È una responsabilità, sta alla tua coscienza, alla coscienza di ogni giornalista, ma anche di ogni lettore, perché si può discutere anche su guardarla o non guardarla.
Non c’è il rischio che si limiti la libertà di espressione e si diffonda una sepcie di autocensura?
In un paese totalitario è devastante l’effetto della libertà di espressione — che sia la pubblicazione di un pamphlet o di una foto — può far crollare il sistema, provocare reazioni alla dittatura. In un mondo libero io credo che dobbiamo stare attenti a come usiamo la libertà, perché se è vero che siamo liberi, probabilmente più liberi di quanto non lo siamo mai stati. Ma proprio per questo dobbiamo usare bene la nostra libertà, rischiamo di sprecarla.