Sostiene Voltolina“Presa diretta” e la facile tentazione del giornalismo in bianco e nero

“Presa diretta” e la facile tentazione del giornalismo in bianco e nero

Il lavoro è un’emergenza, le percentuali della disoccupazione guadagnano i titoli dei giornali, sui dati dei nuovi occupati post-Jobs Act si scatena la polemica politica. Inevitabile che il tema del lavoro faccia notizia, che diventi “notiziabile”. Succede allora che la televisione decida di occuparsene. Il che è un bene, perché la tv rimane il mezzo più diffuso e più diretto, capace di raggiungere e informare il maggior numero di persone, di dare visibilità e imporre all’agenda politica un tema piuttosto che un altro.

Ma il problema della tv, in Italia, è che sembra che possa – o voglia – solo esprimere concetti iper-semplificati. Bianco o nero. La sfida a chi urla di più, a chi pronuncia la frase più ad effetto, indipendentemente da se quella frase corrisponda a realtà. La sfida a chi trova la storia più drammatica, disastrosa, strappalacrime.

Questa tendenza vale in generale, e in generale crea effetti distorsivi imponenti, trasformando spesso l’informazione in show e aggredendo lo spettatore alla pancia anziché fornire elementi utili per una riflessione critica. E quando si parla di lavoro, la tendenza alla tv dell’esagerazione diventa ancor più pericolosa.

Quando si parla di lavoro, la tendenza alla tv dell’esagerazione diventa ancor più pericolosa

Negli anni, non so più quanti colleghi giornalisti – alcuni dei quali anche bravissimi – mi hanno chiamata per “avere delle storie”. Vuol dire: «tu che hai il sito sugli stagisti, fammi intervistare qualche giovane che cerca lavoro e non lo trova, qualche tirocinante sottopagato, qualche precario sfruttato…». Quasi sempre, i colleghi della tv cercavano qualcosa di più forte: non bastava la 30enne laureata discriminata ai colloqui perché in età fertile, bisognava che fosse possibilmente già incinta; non bastava l’ingegnere impegnato nella via crucis dei colloqui, bisognava avesse già 5-6 stage alle spalle, e così via.

Perché la tv italiana, appunto, nella maggior parte dei casi quando parla di lavoro e precariato cerca il caso da circo. Cerca la semplificazione. Cerca qualcuno che dica «Maledetti, guardate come sto male!», e possibilmente qualche voce autorevole che confermi il grido di dolore e accusi la politica di non fare niente, o non fare abbastanza, o fare cose sbagliate.

Ieri sera è accaduto con Presa diretta, che su RaiTre in prima serata ha mandato in onda la puntata “Jobs Act – Tutele crescenti“. Con la collaudata formula di intervallare la narrazione in studio con video interviste a volti noti (ieri il ministro Giuliano Poletti, il segretario della Cgil Susanna Camusso) e a esperti, reportage e testimonianze “dal basso”.

Presa diretta è un ottimo programma, in certe puntate addirittura eccellente. Ha però la tendenza, specialmente su alcuni temi tra cui il lavoro, di partire da una tesi preconcetta e svilupparla presentando le informazioni e le testimonianze in modo che la rafforzino e la facciano apparire come l’unica giusta. Un giornalismo di inchiesta “a tesi”, che ieri voleva affermare la tesi che il contratto a tutele crescenti sia una ingiustizia, una fregatura.

La prima parte della trasmissione mi è piaciuta molto: una inchiesta “da insider” del reporter Federico Ruffo, che si è finto in cerca di lavoro e ha spulciato i giornali di annunci, candidandosi e facendosi assumere per qualche giorno come venditore porta-a-porta di contratti energetici a Roma e poi come addetto in vari call-center del centro-sud, alcuni dei quali proponevano tra le varie assurdità anche una “retribuzione fissa ma variabile”.

Quel che Virzì aveva messo in scena con i toni del grottesco si è rivelato ancor più mostruoso nelle immagini rubate dalla videocamera nascosta di Ruffo

A un certo punto Presa diretta si è trasformata in Tutta la vita davanti, quel film di qualche anno fa tratto dal pamphlet “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia contro il precariato. La scena della Ferilli motivatrice di venditori, con le canzoncine, i balletti, i buongiorno urlati a squarciagola, gli speech motivazionali e la competizione sfrenata per i premi, è diventata tutt’a un tratto realtà: quel che Virzì aveva messo in scena con i toni del grottesco si è rivelato ancor più mostruoso nelle immagini rubate dalla videocamera nascosta di Ruffo.

Sarebbe stato bello a quel punto vedere un passo in più. Una intervista agli ispettori del lavoro di Roma o della Campania o della Sicilia, per chieder loro conto delle evidenti violazioni delle normative sul lavoro rilevate e documentate da Ruffo – condizioni contrattuali capestro, retribuzioni bassissime – facendosi dare i numeri e i dettagli dei controlli effettuati. Una intervista ai vertici di Enel Energia (non solo la telefonata all’anonimo – e laconico – operatore del costumer care…), chiedendo se davvero ignorassero il modo in cui acquisiscono nuovi clienti grazie ai venditori porta-a-porta sottopagati che raccontano menzogne ai clienti, sopratutto anziani, pur di strappare una firma – e soprattutto cosa intendano fare per non rendersi ulteriormente complici di questo sistema malato. È mancato anche un paragone con la situazione dello stesso segmento di mercato del lavoro al nord: sarebbe stato interessante capire in Piemonte o in Veneto o in Emilia Romagna vengono proposte le stesse condizioni di lavoro e di guadagno.

La puntata è andata invece in un’altra direzione: quanto funziona il Jobs Act. Con una visione di partenza specifica: le assunzioni a tempo indeterminato post 7 marzo (data di entrata in vigore del contratto a tutele crescenti) sarebbero orwellianamente “meno a tempo indeterminato” delle altre, per la nuova regolamentazione che ha depotenziato l’articolo 18 dei lavoratori.

Sotto questa luce, anche le 1.481 assunzioni di under 30 da parte dello stabilimento Fca di Melfi (millequattrocentoottantuno in un colpo solo) non sarebbero poi una notizia così positiva. In trasmissione alcuni sindacalisti hanno denunciato che «la Fca avrebbe comunque dovuto fare queste assunzioni, perché aveva gli ordini per le macchine!», quando in realtà – ma nessuno, tantomeno in studio, lo ha specificato – la FCA avrebbe potuto per esempio decidere di assegnare la produzione di quelle macchine ad altri stabilimenti in giro per il mondo, e addio assunzioni in Basilicata.

Fino ad arrivare alla ricercatrice Marta Fana, cervello in fuga che dalla Francia ha individuato l’errore nella tabella dei dati diffusi a fine agosto dal ministero del Lavoro, che a un certo punto ha detto testualmente «il contratto a tutele crescenti è comunque un contratto non stabile». Un contratto “a tempo indeterminato, ma non stabile”. Suona assurdo, come e più della “retribuzione fissa, ma variabile”. Eppure nessuno, nella trasmissione di Iacona, ha contestato l’incongruenza. E sono state svariate le informazioni omesse, perché non coerenti con la tesi di partenza.

Nella trasmissione il contratto a tutele crescenti viene definito da Susanna Camusso «monetizzazione di un’ingiustizia». Onesto sarebbe stato spiegare, prima o dopo questa frase a effetto, che tuttora i licenziamenti discriminatori sono vietati e puniti con il reintegro del lavoratore, e che dunque l’ingiustizia di licenziare qualcuno perché incinta, o perché musulmano, o perché impegnato nel sindacato, è tuttora punita con l’annullamento del licenziamento.

Il contratto voluto da Renzi e Poletti permette semplicemente di licenziare per gli altri motivi, come accade praticamente in tutto il mondo, indennizzando il lavoratore licenziato con una somma proporzionata alla sua anzianità. La maggior parte degli imprenditori è formata da persone oneste, con una coscienza: non certo gente che si diverte a licenziare qualcuno se non ne ha motivo. Perché non dire anche questo, per smorzare almeno un po’ l’anacronistica, ma sempre in auge, contrapposizione tra “padrone” e dipendenti?

E ancora, non sono così sicura che la scelta di paragonare la catena di montaggio della FCA di Melfi a quella della Lamborghini, 6mila dipendenti contro 500, un segmento di mercato di massa messo a confronto con un segmento di iper-iper-élite, dati di bilancio e logiche di mercato completamente diverse, sia stata del tutto imparziale.

Troppa ideologia, insomma. Che ha rischiato di affogare anche le parti davvero interessanti del programma, quelle in cui c’erano “le notizie”. Come l’allarme contro “i furbetti del Jobs Act”, quelle aziende che in primavera hanno licenziato in blocco i lavoratori, riassumendo tramite contratto interinale, e che sperano così di poter assumere a dicembre i loro ex dipendenti ottenendo anche l’incentivo economico che sarebbe vietato a chi assume persone che ha licenziato poco prima.

Bastava essere onesti con il pubblico: signori, il lavoro è una materia complessa, non c’è una risposta semplice

Certamente il giornalismo televisivo ha bisogno di raccontare attraverso immagini, portando sullo schermo la voce e la faccia dei protagonisti. Ma questo non vuol dire semplificare per forza tutto a “bianco o nero”. Di una puntata sul lavoro precario, e sulle mancanze del Jobs Act, c’era sicuramente bisogno. Di una puntata a tema “quando è cattivo il Jobs Act, che fa diventare tutti precari”, molto meno.

Bastava essere onesti con il pubblico: signori, il lavoro è una materia complessa, non c’è una risposta semplice. Bisogna considerare tutti gli aspetti di un problema, anche se di fronte a chi si spacca la schiena alle 4 di notte alla catena di montaggio è difficile mantenere la lucidità. Bisogna sviscerare un tema evidenziando le criticità con rigore intellettuale, senza voler convincere lo spettatore: sennò diventa propaganda.

Sembra che oggi tutto sia relativo, e molta parte del sistema mediatico avalla purtroppo questa tesi. La verità non esiste più – perché risulta troppo noiosa per i giornali e soprattutto per la tv, che preferiscono il titolo strappalacrime, il caso umano, il dato “tondo”. Invece la verità esiste ancora: nella maggior parte dei casi sta nel mezzo, ed è sempre difficile da spiegare. È un vero peccato che la complessità non venda bene come la lotta tra il bene e il male.

* direttrice, Repubblica degli Stagisti

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