Se non altro, la crisi dei rifugiati dell’estate appena trascorsa dovrebbe servire a ricordare all’Unione Europea, ancora una volta, quanto la stabilità dei Balcani occidentali sia un fondamento essenziale per quella del continente. Secondo le stime sono circa 160.000, infatti, i rifugiati che hanno sfruttato la “via balcanica” per cercare di vedersi riconoscere il diritto all’asilo politico in un Paese europeo. Bruxelles ha da poco approvato un piano per riallocare 120.000 persone.
Un primo tentativo di trovare una soluzione al problema, ma che è lungi dall’essere soddisfacente – visto che, come dichiara l’Unhcr tramite la propria portavoce Melissa Fleming, «questa cifra rappresenta l’equivalente di soli venti giorni di transito, a una media di 6.000 arrivi quotidiani».
Troppo poco, insomma, e troppo tardi – sembra essere questo, nel complesso, il bilancio della risposta europea alla crisi umanitaria in corso. Non solo: perché, nell’attesa di quanto potrà essere deciso nel corso del prossimo vertice previsto per il prossimo 8 ottobre in Lussemburgo, i tentennamenti di Bruxelles hanno altresì finito con l’esacerbare le disfunzionalità e i disaccordi politici esistenti nella regione balcanica, lì dove la “via terrestre” verso l’Europa ha acquisito una sempre maggiore importanza nel corso dei mesi passati.
E così, si assistono a episodi come la guerra doganale che nei giorni scorsi ha opposto i governi di Belgrado e Zagabria. E che è costata, secondo le stime della camera di commercio serba, circa30 milioni di euro agli imprenditori locali. All’origine della querelle, la decisione dell’Ungheria di Viktor Orban di chiudere il confine con la Serbia. La rotta dei rifugiati si è quindi spostata verso la Croazia, ritrovatasi così in pochi giorni a gestire un flusso migratorio fuori controllo (più di sessantamila persone in una settimana).
Le autorità di Zagabria sono passate molto rapidamente dai proclami sulla «piena capacità di gestire l’emergenza», ripetuti a più riprese sia dalle autorità di governo che dai leader religiosi del Paese («riceveremo chiunque senza discriminazioni basate sulla fede»), all’allarmismo e alla precipitosa resa di fronte alla gravità della situazione: «Possiamo gestire l’ingresso di 4-5.000 persone sul nostro territorio ogni giorno», ha dichiarato nei giorni scorsi il primo ministro socialdemocratico, Zoran Milanović, «ma più di così è impossibile».
Il governo si aspettava un totale di 20.000 arrivi su una finestra temporale di due settimane. Ora è costretto ad affrontarne 60.000, giunti nella metà del tempo. Già ventiquattro ore dopo i primi arrivi (iniziati mercoledì 16 settembre) la Presidentessa della repubblica, Kolinda Grabar Kitarović (esponente dell’unione democratica croata HDZ, partito di centrodestra nazionalista), era costretta ad ammettere di trovarsi di fronte a « un’invasione incontrollata». E ammoniva: «abbiamo mostrato il nostro volto umano, ora la nostra priorità deve essere la stabilità delle istituzioni».
L’annuncio di Grabar Kitarović anticipava di poco la decisione di chiudere le frontiere con la Serbia, ad eccezione della principale via di comunicazione terrestre tra i due Paesi, ovvero il valico autostradale di Bajakovo. Troppa la pressione dei profughi. E troppo inconsistenti – secondo le accuse del Ministro degli interni croato, Ranko Ostrojić – gli sforzi di Belgrado nel controllarne gli spostamenti. In sostanza, la tesi della Croazia è che la Serbia, dopo la chiusura dei valichi a nord con l’Ungheria, abbia cominciato a incentivare il passaggio dei rifugiati dal proprio territorio a quello controllato da Zagabria.
Proprio mentre l’Europa trovava il compromesso sulla ripartizione di 120.000 rifugiati, il braccio di ferro tra le due ex repubbliche jugoslave raggiungeva il suo apice: il primo ministro serbo, Aleksandar Vučić, chiedeva alla Croazia di riaprire le frontiere. In caso contrario, Belgrado non avrebbe esitato a prendere delle «sanzioni economiche» nei confronti del vicino.
La minaccia è stata messa diligentemente in opera alla mezzanotte di mercoledì 23, con l’annuncio del fermo a tutte le merci croate. Zagabria, per ritorsione, ha quindi deciso di vietare l’ingresso sul suo territorio a tutte le auto e i camion immatricolati in Serbia, e anche ad alcuni cittadini muniti di passaporto serbo. Un disastro, con colonne lunghe fino a 15 chilometri di camion in attesa dalle due parti del confine, colossali perdite economiche e – soprattutto – uno sfoggio di retorica dai toni aggressivi che sembrava ormai appartenere al passato. La Serbia ha anche inviato una nota diplomatica all’ambasciatore a Belgrado, in cui si criticavano le «misure razziste adottate da Zagabria», degne «dello stato fascista di Ante Pavelić e degli Ustascia durante la seconda guerra mondiale».
Alla fine, dopo quasi tre giorni di blocco del traffico dalla Serbia, il governo croato ha deciso di riaprire le frontiere. La crisi è rientrata, anche se i suoi effetti (e le scene dei camionisti bloccati per l’intera durata del braccio di ferro senza acqua, cibo né servizi igienici) non aiuteranno di certo la conciliazione regionale o i rapporti tra i due Paesi, che pure erano riusciti a compiere dei progressi in tempi recenti.
Muro su muro, il fallimento europeo nei Balcani
Sia chiaro, non tutto è colpa della crisi dei rifugiati. In Croazia, così come in Serbia, entrambi gli esecutivi hanno scelto di mostrare i muscoli per ampliare il proprio sostegno presso l’opinione pubblica. A Zagabria il governo socialdemocratico è sotto pressione, in vista delle elezioni parlamentari di questo autunno. La destra ha già vinto le elezioni presidenziali questa primavera, ed è facile intuire che l’Hdz farà leva anche sulla questione dei migranti per mettere in difficoltà l’attuale esecutivo.
Proprio l’Hdz aveva organizzato l’incontro tra i principali partiti della destra croata la settimana scorsa a Vukovar, città distrutta dall’armata serbo-jugoslava durante gli anni novanta, e che ricopre tuttora un ruolo simbolico di primo piano nell’immaginario della “guerra di indipendenza” degli anni Novanta.
A Belgrado il partito di Aleksandar Vučić (Sds) ha saputo alternare fin dall’inizio del proprio governo aperture europeiste a momenti di più marcato sciovinismo filoserbo. La scorsa domenica la capitale serba ha ospitato, questa volta senza alcun incidente, il Gay Pride – una manifestazione che da sempre è utilizzata da Bruxelles come cartina tornasole per giudicare lo stato della protezione dei diritti umani in Serbia, ma che si svolge circondata dalla totale ostilità (o quasi) dell’opinione pubblica.
Da una parte e dall’altra, una sana e vecchia querelle diplomatica con il nemico di sempre è servita a mobilitare l’orgoglio dell’elettorato e a sostenere i partiti al governo («La Serbia ha vinto», titolava in modo piuttosto eloquente il giornale serboInformer annunciando la riapertura delle frontiere). Eppure, le questioni di politica interna non spiegano da sole la gravità di quanto sta accadendo nella regione.
Non c’è dubbio, infatti, che la condizione attuale del flusso dei rifugiati attraverso i Balcani stia peggiorando di giorno in giorno, proprio ora che l’estate è finita e si va verso l’inverno. La stagione è abitualmente molto rigida nell’area, ma sembra difficile che questo basterà a scoraggiare nuovi arrivi, e di sicuro non migliorerà la situazione dei profughi.
A ciò si aggiungano le notizie che provengono dai singoli paesi: l’Ungheria ha ultimato il proprio muro ai confini con Serbia, Croazia e Slovenia (quest’ultima fa parte dello spazio Schengen, ma pare che la cosa a Budapest non interessi) e ha dato al proprio esercito, schierato alle frontiere, il permesso di «aprire il fuoco contro i migranti», a certe condizioni e a patto che «lo scopo non sia quello di uccidere». La Slovenia ha, dal canto suo, bloccato il flusso dei profughi al confine con la Croazia. Altri muri sono in programma al confine tra la Macedonia e la Grecia, ha detto il Ministro degli esteri Nikola Poposki all’agenzia Reuters, perché «è l’unico modo per riuscire a fare quello che l’Europa ci chiede».
L’Europa nei Balcani non sembra avere alcuna strategia, che al momento non si stia traducendo de facto nella riduzione della libertà di movimento tra i singoli Paesi della regione (con risultati anche drammatici, come nel caso della lite tra Zagabria e Belgrado) e nel creare una sorta di imbuto che dovrebbe ridurre progressivamente il flusso alle porte dello spazio Schengen.
L’idea cardine di Bruxelles sembra essere una, a dispetto dei proclami in senso contrario: delegare l’ingrato compito dell’accoglienza ai Paesi della regione, trasformati in grandi centri di smistamento. La strategia non sembra poi così nuova. La rotta balcanica esiste da anni, anche se mediaticamente ha sempre ricevuto meno attenzioni di quella mediterranea. Nel 2012 una lunga inchiesta a puntate,pubblicata dai francesi Mediapart e Le Courrier des Balkans, metteva in luce dinamiche che preannunciavano l’attuale crisi.
Migliaia di persone erano libere di vagare nella regione, passando tra Grecia, Macedonia, Serbia e Montenegro. Flussi minori e che si svolgevano, allora, nel sostanziale disinteresse dell’Unione Europea – il cui obiettivo prioritario era, ed è tuttora, “blindare” l’accesso a Schengen, mantenendo però l’illusione del movimento nei Balcani, trasformati nella propria anticamera.
L’approccio si sta riproponendo ora, sostanzialmente inalterato. E se Angela Merkel ha annunciato di essere disposta ad accettare «tutti i rifugiati siriani», come questi “rifugiati siriani” (non tutti lo sono: un terzo delle persone che si dichiara di nazionalità siriana, dicono a Berlino, mente) debbano raggiungere «la Germania»resta un mistero.
A Ljubljana alcuni attivisti hanno anche indirizzato una petizioneall’attenzione dell’Onu e del governo tedesco per chiedere la creazione di un corridoio umanitario speciale per le migliaia di persone bisognose di accoglienza. Per ora la realtà è questa: nei Balcani, passare le frontiere sta diventando sempre più complicato. A farne le spese, oltre ai profughi, adesso è anche la stabilità della regione.