Dopo i danni causati dal ceto politico e dalla classe dirigente italiana, le cui responsabilità ventennali nel ritardo dello sviluppo del Paese sono evidenti, si sono cercati molti supplenti e salvatori della patria. Negli anni Novanta si pensava che la magistratura potesse aggiustare le manchevolezze della politica, dopo ruberie, malaffare e corruzione, e sulla società civile è stato costruito un mito ideologico. Si è diffusa l’idea che il passante arrivato quasi per caso su una poltrona sia migliore del politico che l’ha preceduto, in Parlamento o alla guida delle amministrazioni locali, anche se sappiamo bene che la società civile può essere anche più incivile del Palazzo.
«La convinzione che i politici non fossero degni di fiducia – scrive Matthew Flinders nel suo “In difesa della politica” – e che si potesse in qualche modo “togliere la politica” dalle loro mani ha determinato un mutamento della natura della governance moderna. Si tratta di un mutamento basato sul trasferimento di potere dagli eletti ai non eletti (ad esempio, giudici, economisti, scienziati, banchieri, contabili, tecnocrati, guardiani dell’etica, ecc.) ma che, per qualche oscuro motivo, sono considerati più legittimi e attendibili dei politici eletti». Epperò, dice Flinders, «non possiamo eleggere dei politici per poi negare la legittimità del loro ruolo», trasferendola ad altri organismi, magari – aggiungiamo con Colin Crouch – in un orizzonte post-democratico nel quale la sfera economico-finanziaria è prevalente su quella dei governi.
Si è diffusa l’idea che il passante arrivato quasi per caso su una poltrona sia migliore del politico che l’ha preceduto, anche se sappiamo bene che la società civile può essere anche più incivile del Palazzo.
Ora, le élite politiche hanno dato dimostrazione di meritarsi tutta la feroce ironia di cui siamo capaci, compresa quella classe dirigente delle Regioni che potrebbe trovarsi promossa al rango senatoriale nella nuova riforma di Palazzo Madama. Ma il risultato di questa operazione antipolitica è la creazione di un populismo istituzionale, praticato dagli stessi politici e costruito sull’elogio di una presunta purezza, sui cui risultati ci sarebbe molto da dire, come dimostra la vicenda dell’impolitico Ignazio Marino, il sindaco moralizzatore che finì moralizzato, secondo l’adagio di Pietro Nenni, ed è stato costretto a dimettersi: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».
L’ideologia gentista – quella che “ce lo chiede la gggente” – è pericolosa, perché il pubblico può essere un padrone volubile da servire. Nel caso di Marino, restituire ventimila euro di spese per rappresentanza, tra cene e vini, è parso, più che un gesto di sfida nei confronti di chi non lo amava, solo un’ammissione di colpevolezza. «Ho deciso di regalarli tutti di tasca mia a Roma e di non avere più una carta di credito del Comune a mio nome». Un gesto di stizza, insomma: Marino che tratta se stesso come farebbe un grillino che ha beccato il “politico” (come se i parlamentari del M5S oggi non fossero a tutti gli effetti dei politici).
Matteo Renzi, quando la Corte dei Conti gli ha contestato spese di rappresentanza in Provincia a Firenze, non ha mai annunciato rimborsi. Anzi. Non è una differenza di poco conto. Questo non significa che la scelta di Marino più politica, e quindi più corretta fosse mentire di fronte alla cittadinanza. Non vorremmo però che alla fine fossimo messi di fronte alla scelta fra onesti ma incapaci e banditi che sanno benissimo come far funzionare un’amministrazione. La politica non è un mestiere per educande. «Nessuna etica del mondo – diceva Max Weber – può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi». Attenzione: sostenere questo non vuol dire affatto credere nella fantapolitica di House of Cards, cattiva e corrotta, ma neanche far finta di non capire in che mondo viviamo.
Come per ogni lavoro, non è giusto che la gente venga pagata poco, ma che venga pagata bene, se se lo merita. Diversamente, la selezione della classe dirigente avverrà per altre strade
Le battaglie gentiste hanno i soldi fra gli argomenti centrali del loro discorso pubblico. Il taglio lineare delle risorse della politica: bisogna sempre dimezzare dimezzare dimezzare, magari con ricadute pesanti non sulla grassa e strapagata società parlamentare, ma su chi fa politica nei territori, dove si è sottoposti a rischi finanziari e giudiziari (volete fare l’assessore all’urbanistica in Comune di trentamila abitanti? Tanti cari auguri).
Eppure, come per ogni lavoro, non è giusto che la gente venga pagata poco, ma che venga pagata bene, se se lo merita. Diversamente, la selezione della classe dirigente avverrà per altre strade. «Un reclutamento non plutocratico del personale politico, dei dirigenti e dei loro seguaci, è legato – scrive Weber ne “La politica come professione” – all’ovvio presupposto che dall’esercizio della politica provengano a questi politici dei redditi regolari e sicuri. La politica può essere esercitata o “a titolo onorifico”, e quindi da persone, come si è soliti dire, “indipendenti’” cioè benestanti, soprattutto in possesso di rendite; oppure il suo esercizio viene reso accessibile a persone prive di beni, che quindi debbono ricevere un compenso. Il politico che vive della politica può essere un puro “percettore di prebende” o un “impiegato retribuito”».