Cercasi segretario per salvare il Pd dalle amministrative

Marino ritira le dimissioni e nel Pd romano è guerra tra bande. Altrove, tuttavia, non va molto meglio. E nel 2016 si vota in 1282 città italiane. Per il governo Renzi la posta in gioco è altissima

Nel 2016 si voterà a Milano, Torino, Bologna e in altre città italiane (1.282 in totale). Roma tornerà nell’elenco soltanto se il Pd farà cadere Ignazio Marino, che ha ritirato le dimissioni. Viste l’importanza e il numero degli elettori coinvolti, il valore politico delle prossime elezioni amministrative è evidente (basta farsi due conti sui seggi dell’Italicum che sarebbero in palio alle Politiche), così come le conseguenze in caso di sconfitta. Insomma non sarà solo un voto circoscritto ai Comuni e il Pd non può fare finta che lo sia.

Alle ultime elezioni locali, Matteo Renzi se ne è disinteressato, lasciando ad Alessandra Moretti e Raffaella Paita l’onere della sconfitta e a Michele Emiliano e Vincenzo De Luca l’onore della vittoria. È la rappresentazione dello scollamento che c’è fra il partito centrale e le sue ramificazioni sul mitico territorio di cui parlava Ernesto Galli della Loggia in un editoriale sul Corriere della Sera di qualche giorno fa: «Dalle Alpi alla Sicilia, la sua periferia si presenta come un insieme di feudi più o meno grandi in mano a capi locali virtualmente autonomi, di centri di potere di fatto indipendenti, di coalizioni decise ogni volta sul posto. O altrimenti di grandi spazi vuoti. La conseguenza è che sindaci renziani di qualche peso oggi, tranne a Firenze, non ne esistono. Né sembra facile trovarne qualcuno nei prossimi mesi per Roma, Napoli o Milano». Nell’Italia di oggi dunque esiste «Renzi ma un Pd renziano, un Pd diciamo così modellato e ispirato dalle idee del presidente del Consiglio, non si vede proprio».

Il caso romano è emblematico e non solo per il pasticcio dell’affaire Marino, ma anche perché il partito a Roma è tutt’ora preda delle correnti, o, per meglio dire, delle bande democratiche che si guerreggiano. È paradossale perché il PdL, il Partito della Leopolda, è nato, nelle intenzioni del suo leader, per rimuovere queste dinamiche micropersonali che rendono più pesante la struttura del partito. Nelle vesti di “macroleader” a livello nazionale – per usare un’espressione di Mauro Calise, tratta dal libro “Fuorigioco” (Laterza) – Renzi ha vinto il congresso e le elezioni europee del 2014, ma l’effetto del 40,8 per cento è ormai passato, tanto che è sparito dalla narrazione del presidente del Consiglio.

Le elezioni amministrative e regionali mettono invece in evidenza l’altra faccia della medaglia del Pd a guida renziana, che è rimasto lo stesso del congresso 2013. Per questo, ha osservato recentemente Ilvo Diamanti su Repubblica citando una ricerca dell’Atlante Politico di Demos, c’è differenza fra Renzi e il Pd. «L’aspetto, forse, più inatteso dell’indagine – almeno dal mio punto di vista – è la distanza crescente, per non dire la dissociazione, fra Matteo Renzi e il Pd». Il gradimento personale di Renzi è al 44 per cento, non alto come un anno fa (era al 60 per cento), ma comunque, osserva il politologo, «la delusione e il malessere sociale, prodotti da una ripresa economica incerta e dagli scandali che si susseguono, lo sfiorano, senza investirlo direttamente. La stessa crisi politica romana, che ha spinto il sindaco Marino alle dimissioni, non sembra aver logorato il consenso di Renzi. I costi più elevati, semmai, li ha pagati il Pd. Secondo le stime di voto di Demos, sarebbe sceso sotto il 32%. Il livello più basso dalle elezioni europee fino ad oggi».

Il partito a Roma è preda delle correnti, o, per meglio dire, delle bande democratiche. È paradossale perché il Partito della Leopolda è nato, nelle intenzioni del suo leader, per rimuovere queste dinamiche

Nel Mezzogiorno, questo scollamento ha avuto varie forme; il risultato finale è che il Pd vince in Campania e in Puglia grazie alle performance di Emiliano e De Luca, che non sono certo dei renziani della prima ora. In quelle zone d’Italia, ma il discorso sembra valere anche altrove, «la chiave dell’autodafé – o autodistruzione – del Pd sta nel fatto che, nel tentativo di sfuggire all’ascesa del macroleader, si è infilato nel cul-de-sac del micronotabilato – scrive Calise -. Mentre la scena ufficiale era occupata dallo scontro tra Direzione collegiale e leadership personalizzata, nelle retrovie andava avanti un processo di frammentazione interna che non ha presententi nella storia democristiana e, tantomeno, comunista». Dunque, ragiona Calise, «siamo in presenza di una polverizzazione del processo di selezione della classe dirigente. Una frantumazione che ben si presta a far emergere i micronotabili come un elemento portante della struttura del Pd».

Il Pd finora non ha beneficiato del disimpegno renziano sul partito, anzi. A questo giro, però, il segretario potrebbe cambiare idea. Il problema è che le risorse migliori che avrebbe potuto impiegare nel Pd sono state trasferite dal Nazareno a Palazzo Chigi. Renzi dunque è dovuto passare dal blairiano slogan-precetto cambiare il Labour per cambiare l’Inghilterra a una visione più clintoniana, secondo cui il partito si cambia stando al governo. «Insediato alla Casa Bianca – scrive Antonio Funiciello in un saggio pubblicato sulla rivista del Mulino – Clinton si ritrovò tra le mani un partito democratico che l’aveva scelto un po’ per caso ed era culturalmente collocato agli antipodi della dottrina liberaldemocratica dei New Democrats». Clinton, scrive Funiciello, «dovette letteralmente reinventare una missione e un relativo programma democratico. E s’incaricò di scegliere gli uomini che, Stato per Stato e nel distretto di Columbia, potessero sostenere con credibilità una rivisitazione generale del posizionamento culturale del partito (Obama ancora oggi vive di rendita grazie alla rivoluzione clintoniana)». Milano, Roma e Napoli, ma anche Torino o Cagliari, sono le città per vedere se questa rivisitazione generale è possibile anche qui.

@davidallegranti