Contro le elezioni: perché non funzionano più

Forse la crisi della politica contemporanea risiede in uno strumento obsoleto che, in questi giorni, non è più in grado di garantire legittimità e governabilità. E forse è perché le elezioni non sono democratiche

Nei momenti di crisi, tutti le invocano a gran voce. Nei momenti di pace, sono elogiate, intoccabili. Le elezioni piacciono a tutti. Sono considerate sinonimo stesso di democrazia. Votare è diritto, per alcuni un dovere (morale) e per molti anche la soluzione indicata per far ripartire la politica, quando si inceppa. Le elezioni sono, addirittura, metro di misura del livello di democrazia di un Paese, soprattutto dove la democrazia è “giovane”. Se si vota, allora si è sulla strada giusta. Eppure, anche se sono così importanti, il livello di partecipazione al voto è sempre più basso. Negli anni Sessanta oltre l’85% degli europei prendeva parte al voto. Negli anni Novanta si era scesi al 79 per cento. All’inizio del nuovo millennio si era sotto il 77 per cento. E negli Usa è anche peggio: la partecipazione alle presidenziali non supera il 60%, quelle intermedie non toccano il 40 per cento. Come è possibile?

La lista dei colpevoli è lunga: i politici al primo posto, insieme ai media (che non informano abbastanza). Poi i cittadini stessi, che per apatia si disinteressano alla cosa pubblica: non votando si mette a rischio la democrazia. Lo pensano in tanti, alcuni si preoccupano anche. Ma le cose, in realtà, non stanno così. Il problema delle elezioni – udite udite – sono le elezioni stesse. Non sarebbero più efficaci. E questo avviene perché, in realtà, non sono affatto democratiche.

Lo sostiene il giornalista belga David Van Reybrouck nel suo ultimo libro, Contro le elezioni: perché votare non è più democratico, edito in Italia da Feltrinelli. La sua tesi è semplice: le elezioni non vanno più bene, devono essere sostituite da un’altra forma di selezione della classe politica. Lo dimostra (o tenta di farlo) partendo da un assunto semplice, anzi, da un paradosso: nella storia non ci sono mai state così tante democrazie al mondo (si contano 117 democrazie elettive, di cui 90 considerate “effettive”, su un totale di 195 Paesi), ma al tempo stesso mai si era registrata una crisi di fiducia così profonda, sia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni che (fatto nuovo) da parte delle istituzioni e dei politici nei confronti dei cittadini.


Il fatto che i problemi esplodano al momento del voto non è un caso: affluenza bassa, disaffezione, movimenti populisti di boicottaggio. “I nostri rappresentanti non ci rappresentano”, dicevano a Occupy Wall Street. Il problema c’è, e questi ne sono i sintomi. La diagnosi di Van Reybrouck è chiara. «Quest’ossessione per le elezioni sembra curiosa: è da quasi tremila anni che sperimentiamo la democrazia, e solo da duecento che lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni», scrive. Anche perché «non sono uno strumento democratico».

Prima di sobbalzare sulla sedia, spiega, è meglio considerare alcune cose. Nella democrazia di Atene, ad esempio, che è stata – fino a prova contraria – la prima forma di democrazia della storia, le elezioni erano limitatissime. La maggior parte delle cariche veniva attribuita attraverso un modo diverso: attraverso il sorteggio. È questa, spiega Van Reybrouck, la chiave per ridare vita alla democrazia. E di fronte allo scetticismo del lettore, prepara una fitta serie di argomentazioni.

Come diceva Aristotele, «uno dei tratti distintivi della libertà è quello di essere, a turno, governati e governanti»

L’esempio di Atene, insiste, non è peregrino. Funzionava in modo molto diverso da quelle attuali, ma il punto è proprio questo. Ad Atene «la partecipazione dei cittadini veniva esercitata direttamente», e quando si veniva sorteggiati era un dovere accettare l’incarico. Tutti i cittadini che volevano potevano partecipare al sorteggio, e potevano far parte di una delle tre grandi assemblee (la Ecclesia, la Boulè e l’Elia, il tribunale) o accedere a diverse magistrature. Potevano redigere le leggi, votarle, partecipare ai processi e giudicare. Esistevano cariche elettive, (che Aristotele considerava “oligarchiche”) ed erano riservate a compiti specifici dove le competenze erano necessarie: la “strategia”, cioè l’organizzazione militare, e ad altri incarichi di tipo economico. Per il resto, era tutto lasciato nelle mani dei cittadini, perché, come diceva Aristotele, «uno dei tratti distintivi della libertà è quello di essere, a turno, governati e governanti».

L’alto numero di partecipanti garantiva la rappresentazione e permetteva di diluire le inevitabili impreparazioni dei cittadini, fino a creare un corpo omogeneo che si preoccupava dello svolgimento del proprio compito. Accedere alla gestione della città è un modo «per arricchire il cittadino» e «per fargli comprendere la complessità della cosa». È un’esperienza che, non si può negare, nelle democrazie contemporanee manca. In ogni caso, ad Atene la democrazia avveniva con il sorteggio. Era l’oligarchia – parola di Aristotele – che si organizzava attraverso le elezioni. Come avveniva, del resto, a Sparta.

Il sorteggio è stato utilizzato in diverse altre occasioni nella storia: poco a Roma, ma molto nei comuni e nei centri del medioevo europeo. Nella Repubblica di Venezia, ad esempio, era stato creato un sistema di selezione del doge (carica a vita) che mescolava in un modo piuttosto complicato cooptazione e sorteggio. Era la soluzione migliore per evitare le guerre tra le famiglie patrizie (il sorteggio, in quanto affidato al caso, non era né responsabilizzante né manipolabile) e garantire che, comunque, venisse scelto un doge preparato. Lo stesso vale per la “imborsazione” fiorentina, processo di selezione delle varie cariche cittadine che prevedeva, tra i momenti più importanti, proprio il sorteggio.

La cosa notevole è che il sorteggio, e la democrazia in seconda battuta, vengono rifiutati in modo espresso dai padri della patria statunitensi

Ma quando il sorteggio ha smesso di essere sinonimo di democrazia, ed è stato sostituito dalle elezioni? Anche qui, c’è una risposta precisa: nel ’700. La Dichiarazione di Indipendenza degli Usa segna il passaggio da un sistema democratico a un sistema oligarchico. Secondo certi aspetti, il passaggio a un sistema rappresentativo era inevitabile, anche solo per questioni pratiche: una partecipazione di massa dei cittadini era impossibile.

Ma la cosa notevole è che il sorteggio, e la democrazia in seconda battuta, vengono rifiutati in modo espresso dai padri della patria statunitensi. «James Madison, il padre della Costituzione americana, vedeva nella democrazia “uno spettacolo pieno di guai e di dispute”. Nei discorsi dei rivoluzionari americani e francesi (sì, anche quelli francesi) il termine “democrazia” viene evitato in modo palese». Per Van Reybrouck «non era una semplice questione di vocabolario. La realtà democratica stessa li inorridiva. Molti di loro erano giuristi, proprietari terrieri, industriali, armatori e anche, in America, proprietari di piantagioni e di schiavi». Meglio parlare di Repubblica e cancellare la democrazia. E con lei, il sorteggio. Ancora oggi è difficile immaginarsi che possa essere considerato uno strumento valido per la selezione dei politici. Eppure è stato usato per secoli.

La proposta, allora, è di re-introdurlo. Se la politica soffre di una sindrome di “stanchezza”, come spiega l’autore, la soluzione sta in un maggior coinvolgimento dei cittadini, ma in una direzione diversa da quella proposta dai partiti populisti. Un sistema “birappresentativo”, che mescoli elezioni e sorteggio, partendo dal principio che la democrazia «è come l’argilla: si adatta alla sua epoca. Le forme concrete che assume sono sempre modellate dalle circostanze storiche». E allora, visto che le elezioni risalgono al XIX secolo, se non a quello precedente, serve uno strumento nuovo per definire i tempi.

Uno dei maggiori sostenitori della reintroduzione del sorteggio è il professor James Fishkin. Nel 1988, in occasione delle elezioni presidenziali che avrebbero visto la vittoria di Bush padre, aveva proposto in un articolo sull’Atlantic Monthly di istituire un’assemblea di 1.500 cittadini, estratti a sorte, che si sarebbero confrontati con i politici e avrebbero valutato le loro offerte politiche. Il tutto trasmesso in televisione, per tenere informato il resto della popolazione. A differenza di un sondaggio di opinione, i 1.500 avrebbero potuto confrontarsi, discutere, parlare e approfondire le tematiche. Poi, alla fine, avrebbero emesso una deliberazione. «I sondaggi valutano quello che il pubblico pensa quando non riflette. Un sondaggio deliberativo misura ciò che il pubblico pensa quando gli si dà occasione di riflettere».

 https://www.youtube.com/embed/Hr1MqokjqRQ/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

È bastato questo perché esplodesse, nel giro di pochi anni (ma confinato agli ambienti accademici) un’intera letteratura sull’argomento. «La democrazia deliberativa è una forma di democrazia in seno alla quale le deliberazioni collettive occupano un posto centrale e i partecipanti formulano, fondandosi su informazioni e argomentazioni, soluzioni razionali, concrete per affrontare le sfide sociali che si presentano».

«Il ricorso al sorteggio non è un rimedio miracoloso, non è una ricetta ideale, come non lo sono mai state neanche le elezioni. Ma può correggere un certo numero di difetti del sistema attuale». L’ipotesi, allora, è di introdurlo per selezionare gruppi di cittadini per discutere ed elaborare una sola legge, come stadio iniziale. Cosa che poi è già avvenuta in Canada. Oppure, allargando un po’, per elaborare tutte le leggi di un particolare ambito della politica pubblica, magari «in un campo così controverso che i rappresentanti eletti ne affidano volentieri il carico ai cittadini». Si può arrivare a sostituire una Camera eletta di un sistema bicamerale, facendo convivere sorteggio ed elezione, magari affidando alla Camera dei sorteggiati un compito di controllo. E alla fine, si potrà affidare al sorteggio tutto l’iter legislativo. Ma ci vorrà ancora molto.