Crescita, la ricetta di White: “È compito dei politici, non delle banche centrali”

L’economista canadese William R. White spiega dove finora hanno sbagliato gli stati: si sono affidati a soggetti che non hanno le capacità per risolvere i problemi. Servono scelte politiche come il taglio del debito e il rilancio degli investimenti, oltre alle liberalizzazioni

William R. White, canadese, economista, presidente dell’Economic and Development Review Committee dell’Ocse, sbarca a Roma e cita Von Hayek: «Combattere la depressione con un’espansione forzata del credito è come cercare di curare il male con gli stessi strumenti che lo hanno causato». L’occasione è la Lectio Minghetti, organizzata dall’Istituto Bruno Leoni e dedicata alla memoria di Marco Minghetti che, nel 1875, riuscì a raggiungere il pareggio di bilancio.

White non si limita ad analizzare le politiche monetarie espansive degli ultimi anni, quelle che hanno preceduto la grande depressione del 2008 e quelle con le quali si è cercato di uscirne (il titolo della Lectio è “The Ultra-Easy Money Experiment”). Vuole lanciare un messaggio che vada al di là della contingenze, distinguendo ruoli e responsabilità: sono i politici, e non i banchieri centrali, a dover risolvere le crisi.

L’analisi di White parte dalle origini della depressione economico-finanziaria, la cui prima fase è iniziata con il crollo dei prezzi nel mercato immobiliare americano alla fine del 2005. La questione dei mutui subprime e il sistema di complessi strumenti finanziari a essi legati sono stati solo la causa scatenante, che ha rivelato una fragilità sistemica, dovuta alla precedente eccessiva espansione del credito. Secondo l’economista canadese, si è arrivati a questo punto per effetto di una politica monetaria basata su una teoria debole, quella secondo cui la bassa crescita e l’insufficiente creazione di posti di lavoro sarebbero dovute esclusivamente a una domanda inadeguata (inadeguatezza a cui si può porre rimedio, dunque, con una politica monetaria espansiva).

Questa teoria, sostiene White, è stata testata per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta, quando vi era una credenza diffusa sull’esistenza di una sorta di compensazione sul lungo periodo tra disoccupazione e inflazione. Il cosiddetto “Greenspan put”, la politica attuata dall’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, a seguito del crollo delle borse nel 1987, è stata seguita da analoghi episodi di accentuato allentamento monetario, nel 1991, nel 1998 e nel 2001.

Il problema è che queste scelte non sono mai state compensate da politiche più restrittive nel momento in cui l’economia si riprendeva. Si è potuto proseguire su questa falsariga grazie alla persistente pressione al ribasso sull’inflazione globale, frutto del processo di globalizzazione (con il ritorno a un’economia di mercato in Paesi come la Cina, o quelli dell’Europa Centro-Orientale).

Si è arrivati a questo punto per effetto di una politica monetaria basata su una teoria debole, quella secondo cui la bassa crescita e l’insufficiente creazione di posti di lavoro sarebbero dovute esclusivamente a una domanda inadeguata

White si concentra soprattutto sul 2001 e sull’allentamento della politica monetaria nelle economie di mercato avanzate, in risposta al crollo delle borse e all’arresto della crescita vertiginosa degli anni Novanta. Questa politica del denaro facile è stata di una rapidità e di una portata senza precedenti: i tassi di risparmio delle famiglie sono scesi notevolmente, con un aumento graduale del debito. Con la crescita dei prezzi delle case, anche gli investimenti nel mercato immobiliare sono decollati.

Gli istituti di credito hanno aumentato la leva finanziaria, con la crescita dei prestiti e del prezzo degli asset della finanza. Come è potuto accadere tutto questo? Le banche centrali credevano che, con l’inflazione sotto controllo, tutto sarebbe andato bene. Banchieri privati e finanzieri pensavano che gli ampi profitti che traevano fossero dovuti al loro talento (alfa) e non all’assunzione del rischio (beta). I debitori ritenevano che i prezzi delle abitazioni e di altri asset finanziari fossero inevitabili.

E i governi, dal canto loro, sono caduti nella trappola: convinti che il grande gettito fiscale fosse strutturale, e non ciclico, lo hanno speso immediatamente. Poi è arrivata la grande crisi. I politici delle economie di mercato avanzate hanno reagito con una vasta serie di misure per contrastarla, ma questi provvedimenti, che in un certo senso hanno avuto successo e sono riuscite a stabilizzare la situazione, avevano un limite: gli effetti positivi che producevano a breve termine erano contrastati da quelli negativi sul lungo periodo.

Corriamo grossi rischi quando ci affidiamo totalmente alla capacità delle banche centrali di ripristinare una crescita forte. Questo compito tocca alla politica. E adesso, per uscire dalla crisi, altre misure sarebbero più efficaci, a partire dal riconoscimento che il problema fondamentale è quello del debito eccessivo e della possibile insolvenza

White parla dell’aumento dei deficit fiscali e degli indici di indebitamento, sottolineando come le misure adottate per sostenere il sistema finanziario, inizialmente efficaci, non abbiano affrontato i problemi strutturali e la necessità di riduzione del debito. In sostanza, «le economie di mercato avanzate hanno perlopiù scelto la via giapponese, e non quella dei Paesi nordici, per riportare in salute il sistema finanziario».

In seguito alla crisi le politiche monetarie “ultrafacili” sono diventate l’extrema ratio. Il problema è che «la loro efficacia diminuisce col passare del tempo, mentre gli effetti negativi aumentano» (non c’è stata grande trazione monetaria sulla domanda interna, soprattutto a causa di una profonda incertezza sul futuro). Occorre dunque moderare, secondo White, queste politiche: «Se gli effetti sulla domanda aggregata diminuiscono con il passare del tempo, mentre quelli collaterali indesiderati aumentano, queste due funzioni dovranno incontrarsi. A quel punto la politica monetaria dovrà essere giudicata come qualcosa che ha fatto più male che bene».

L’economista canadese è convinto che il processo di uscita dalla “droga” monetaria non avverrà nei tempi giusti («sfortunatamente c’è tutta una serie di ragioni per aspettarsi che un’uscita venga posticipata ben oltre la data prevista»). Perché? Anzitutto c’è grande incertezza sui suoi effetti.

Inoltre, chi trae profitto dalla situazione attuale esercita pressioni notevoli: «I debitori stanno guadagnando a discapito dei creditori, e i governi sono fondamentalmente i più grandi debitori al mondo». Last, but not least, «anche le banche centrali sono umane, si preoccupano delle perdite di capitale che dovranno registrare quando le condizioni del credito diventeranno più stringenti». In sostanza, ci sarà un’uscita eccessivamente posticipata, di fatto una situazione di immobilismo.

Dall’analisi della depressione del 2008, e dei tentativi di porvi rimedio, White trae una lezione universale: corriamo grossi rischi quando ci affidiamo totalmente alla capacità delle banche centrali di ripristinare una crescita forte. Questo compito, dice l’economista, tocca alla politica. E adesso, per uscire dalla crisi, altre misure sarebbero più efficaci, a partire dal riconoscimento che il problema fondamentale è quello del debito eccessivo e della possibile insolvenza.

I governi, se attuassero queste politiche, incontrerebbero molte difficoltà, il che spiega la loro scelta di affidarsi così tanto agli stimoli delle banche centrali. Ma la ripetizione degli schemi fallimentari del passato sarebbe ancor di più esiziale

La ricetta politica di White si basa anzitutto sulla ristrutturazione e sulla remissione del debito, che devono essere adottate con maggiore aggressività (questo potrebbe riportare alla capitalizzazione delle banche o, in alcuni casi, alla chiusura degli istituti finanziari). In secondo luogo, le riforme strutturali, come le liberalizzazioni dei servizi e l’aumento dell’età pensionabile, devono essere perseguite in maniera decisa, per incentivare la crescita e la capacità di ripagare i debiti, oltre alla possibilità di risolvere gli squilibri commerciali.

Il terzo punto del “programma di White” è l’aumento sensibile degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, che permetterebbe sia al potenziale della domanda, sia a quello dell’offerta, di espandersi. Infine, i governi devono utilizzare gli strumenti che ancora hanno a disposizione per accrescere la domanda aggregata. Alcuni di loro hanno spazio di manovra in ambito fiscale e devono risolvere i surplus delle partite correnti. White si rivolge direttamente alla Cina, chiedendo a Pechino di tradurre infatti le intenzioni già espresse di aumentare i consumi, ponendo fine alla repressione finanziaria e consentendo un apprezzamento dei tassi di cambio e un aumento dei salari.

Non bisogna illudersi: i governi, se attuassero queste politiche, incontrerebbero molte difficoltà, il che spiega la loro scelta di affidarsi così tanto agli stimoli delle banche centrali. Ma la ripetizione degli schemi fallimentari del passato sarebbe ancor di più esiziale.

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