In Io e lei, la commedia romano-romantica di Maria Sole Tognazzi su una coppia lesbo, bisogna mettersi d’accordo su chi è veramente «lei». Una cosa è certa: non è la gattamorta Federica interpretata da Margherita Buy né la passionale Marina di Sabrina Ferilli, una bionda e l’altra bruna, come le Donne dannate di Baudelaire. Cosa tiene insieme queste due bellissime «lei» non si capisce. Sono una coppia omo sulla fiducia, per così dire: mesi di battage pubblicitario ci hanno ripetuto che in questo film Buy e Ferilli (cioè non due esordienti pronte a tutto per far parlare di sé, e nemmeno star trentenni allevate da registi controcorrente fanatici della devianza, ma due amatissime e stimatissime signore del nostro cinema, una l’alter ego femminile di Nanni Moretti, l’altra anello mancante fra il cinepanettone e l’Oscar) fanno due lesbiche. Quindi è sottinteso che in quel bel lettone, con le lenzuola di seta e il materasso Fisiology, fanno cose, ma non c’è bisogno di mostrarle agli spettatori. Solo un paio di bacetti, rigorosamente a labbra chiuse e con tutti i vestiti addosso, durante i quali sembra di veder scorrere un sottopancia con le clausole del contratto delle due attrici: «no scene di sesso gay o di nudo qualsivoglia con la co-protagonista».
Oddio, forse Sabrina, che è un’artiggiana de a qualità, oltre che una professionista, sarebbe andata anche un po’ oltre, ma sullo schermo si ha l’impressione che se lo facesse, Margherita si metterebbe a strillare. Il desiderio e la passione fra le due donne (che devono pur esserci se Federì torna da Marina scaricando di brutto uno sdraiabilissimo coetaneo oculista e politicamente ipercorretto, a parte un residuo fisso di maschitudine che si esaurisce nella barba e nella partita in tv), non si vedono né si sentono né si intuiscono da un gesto o da uno sguardo. E’ vero che la Vita di Adele ha egregiamente coperto il fabbisogno cinematografico di scene lesbo fino al 2027, ma è un po’ strano che l’unico fluido che le due amanti di Io e lei si scambiano nell’intimità sia la crema idratante davanti allo specchio del bagno. Pensiero maligno: se tutte le donne che convivono così, fra bacini, dolcetti, scambi di vestiti, gite al mare e cene sul divano davanti alla fiction preferita, possono rivendicare il diritto di sposarsi, allora voglio sposare le mie ex compagne dell’appartamento da fuorisede.
Solo un paio di bacetti, rigorosamente a labbra chiuse e con tutti i vestiti addosso, durante i quali sembra di veder scorrere un sottopancia con le clausole del contratto delle due attrici: «no scene di sesso gay o di nudo qualsivoglia con la co-protagonista»
Sulla «lei» del titolo, dunque, si devono fare altre ipotesi. In questi giorni di Sinodo sulla famiglia, si può identificarla nella Chiesa cattolica (il film si apre con la celebrazione di un battesimo). «Lei» è il soffitto di vetro che impedisce all’Italia di tenere la schiena dritta e la testa alta nella conquista di uguali diritti civili per le persone omosessuali. Il soffitto è bassetto e inclinato tipo mansarda, il dislivello va da rasoterra – i parroci che invocano i lanciafiamme contro i gay o rifiutano come padrini di battesimo o catechisti chi è a favore delle nozze omo – ad altezze quasi umane tipo monsignor Schoenborn, arcivescovo di Vienna, che afferma che per valutare l’amore di una coppia, etero o gay, che sia, bisogna guardare a quel che fa nel tinello, non in camera da letto. E il vetro negli ultimi tempi decisamente offuscato, vedi gli scandali su orge gay in parrocchia a Taranto, il coming out di monsignor Charamsa e la reazione inviperita delle gerarchie cattoliche, che lunedì scorso hanno anche rimosso padre Marco Mercado, rettore di una parrocchia pressi di Chicago, «per relazioni inappropriate con un uomo adulto» (inevitabile il sospetto che il problema fosse l’età troppo matura del partner). Ma nessuno, neanche il più modernista dei politici, ha la forza e il coraggio di dare la capocciata decisiva perché nel nostro Paese questo soffitto di vetro, più di tutti gli altri, può costargli la testa. O almeno così tutti credono, il che, all’atto pratico, è la stessa cosa.
L’estrema circospezione, con cui regista e sceneggiatori (Cotroneo e Marciano) descrivono la coppia gay, può autorizzare un altro identikit: la «lei» con cui chi fa un film su questo argomento è l’ipocrisia. Sì, d’accordo, alla fine del film vince il rapporto più vero e solido, ma si rinuncia a esplorarne il mistero per limitarsi a raccontare ciò in cui un legame fra due donne omosessuali è uguale a ogni altro rapporto di coppia: c’è sempre uno che dà un po’ di più e che a un certo punto resta fregato, dopo l’innamoramento arriva la stanchezza, poi la scappatella, il pentimento, il rimpianto e il ritorno dall’ex e alla sicurezza di una quotidianità confortevole e rodata. Onestamente: qualcuno ne dubitava? C’è chi crede che il modello degli amori lesbo sia ancora oggi la love-story fra Virginia Woolf e Vita Sackville West, o Saffo e le sue allieve? Al maschile ce l’aveva raccontato quasi quarant’anni fa il papà di Maria Sole nel Vizietto. E fra lui e Michel Serrault fisicamente non succedeva niente, ma, potenza dei grandi attori, bastavano le loro facce segnate e i loro sguardi complici a rivelarli come una vecchia coppia di amanti che ne hanno fatte di ogni. Ma nel 2015 ha senso riaffermare che i gay «sono come noi»? Sarebbe stato più interessante raccontare com’è successo che un’impeccabile moglie e madre, a un certo punto, si è innamorata di una donna e ci è andata a vivere. E’ successo a Federica di Io e lei, ma capita anche nella realtà, a uomini e donne. L’enigma della zona grigia rimane in sospeso in favore di bisticci e rappacificazioni da fiction di prima serata, ed è un peccato.
L’estrema circospezione, con cui regista e sceneggiatori (Cotroneo e Marciano) descrivono la coppia gay, può autorizzare un altro identikit: la «lei» con cui chi fa un film su questo argomento è l’ipocrisia
Ma se su Io e lei LezPop, imprescindibile sito di «cultura pop in salsa lesbica», ha dato il placet, avrà ottime ragioni. Per me si riducono a una sola, ma fortissima: Sabrina Ferilli. Il suo carisma nazionalpopolare per il pubblico medio è garanzia che la coppia gay ha le stesse caratteristiche dei divani di cui l’attrice è stata testimonial: è robusta, confortevole, accogliente e fatta per durare, interamente prodotta in Italia e grazie alle sue linee eleganti e alle sue finiture di qualità sta bene in ogni casa. Il fatto che in un film italiano, seppur non riuscitissimo, la lesbica doc sia sia senza dubbio il personaggio oggettivamente più simpatico ed empatico – perché Marina viene dal basso, si è fatta da sé, parla come mangia, non si vergogna di ciò che è, una specie di figlia spirituale di Renato Zero – e sia interpretata da una piaciona glamour e sexy come Sabrina, significa che al di là delle polemiche su gender-non gender, qualcosa sta davvero cambiando nella testa della gente, quella che fa cinema e quella che ci va. Mondo civile, aspettaci, stiamo arrivando. Con i nostri tempi, ma stiamo arrivando.