Il salto di qualità nella risposta israeliana all’ondata di violenze che da inizio ottobre è dilagata nei territori palestinesi, e non solo, è arrivata. Dopo i bombardamenti contro obiettivi di Hamas in risposta al lancio di razzi da Gaza, il massiccio impiego delle forze di sicurezza israeliane sul territorio e la distruzione delle case degli attentatori (pratica sospesa da anni in quanto ritenuta un deterrente inefficace, e da poco ripresa), ora vengono inviati nelle città israeliane i soldati di sei compagnie, viene prevista la possibilità di sigillare i rioni arabi di Gerusalemme, ed è stabilito che i funerali degli attentatori non si svolgano in Palestina, temendo che facciano da detonatore ad altre proteste violente, ma in Israele.
Quest’ultima misura, secondo diversi esperti, rischia di fomentare ancor di più la rabbia dei palestinesi, già alimentata dalle immagini e video che girano sui social network mostrando gli abusi della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane. Il premier israeliano Netanyahu starebbe – questa è una tesi che circola in ambienti europei – cercando di evitare un’escalation, politicamente dannosa per la sua immagine di “uomo della sicurezza”. Tuttavia la crescente rabbia della sua base elettorale – esasperata dallo stillicidio di accoltellamenti e attentati di “lupi solitari” palestinesi – e la concorrenza dei partiti di estrema destra e dei coloni, rischiano di trascinarlo in una spirale di cui ad oggi non si vede la fine.
«Anche Hamas è costretta in un angolo, non può dissociarsi dalle proteste e dagli attentati senza correre il rischio di perdere consensi e favorire altre formazioni, ancora più estremiste»
A innescare le proteste dei palestinesi era stata, lo scorso settembre, un’azione della polizia israeliana nella Spianata delle moschee, luogo sacro sia per gli ebrei (per loro si tratta del Monte del Tempio) che per i musulmani. Le forze di sicurezza con la stella di Davide avevano fatto irruzione nella moschea di Al Aqsa, dove si erano barricati dei giovani palestinesi armati di sassi e molotov con l’obiettivo – secondo la ricostruzione israeliana – di colpire i fedeli che si sarebbero recati nel luogo sacro per festeggiare il capodanno ebraico.
Le successive restrizioni all’accesso alla Spianata per i musulmani durante il periodo festivo avevano fatto lamentare alla dirigenza palestinese una violazione dello “status quo”, secondo cui – tra le altre cose – il controllo all’interno della Spianata era demandato a loro (e ai giordani, intermediari nell’ultima crisi del novembre 2014), e avevano infiammato le proteste della popolazione. Non potendo sfogare la propria rabbia nella Spianata stessa, militarmente presidiata dalle forze israeliane, diversi palestinesi hanno quindi iniziato a compiere attentati individuali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
Il primo ottobre due coniugi ebrei vengono uccisi da uomini legati ad Hamas. Il tre ottobre altri due israeliani muoiono accoltellati. Le rassicurazioni di Netanyahu sul mantenimento dello “status quo” per la Spianata – unite al divieto per i parlamentari israeliani di recarsi sul luogo – non bastano a frenare le violenze, e i richiami alla calma del presidente palestinese Abbas (del partito moderato al-Fatah) non hanno maggior successo. Le proteste di piazza montano e gli attentati si susseguono, spesso usando armi bianche (da qui il nome giornalistico di “Intifada dei coltelli”) o lanciando la propria autovettura sui passanti. La risposta israeliana è molto dura. Molti attentatori vengono uccisi, ma anche manifestanti e innocenti vengono colpiti, talvolta a morte. L’ultimo conteggio vede 9 vittime e decine di feriti israeliani, e 27 vittime e centinaia di feriti palestinesi dall’inizio delle violenze.
«La protesta palestinese non è figlia di una qualche strategia politica, nasce semplicemente dalla disperazione di tantissimi giovani palestinesi», spiega Yezid Sayigh, esperto di questione israelo-palestinese del Carnegie Middle East Center. «Al-Fatah ha solo da perdere da questo clima: avendo scelto la via del dialogo – anche se al momento siamo in fase di stallo – non gli conviene esasperare la situazione. Ma anche Hamas è costretta in un angolo, non può dissociarsi dalle proteste e dagli attentati – in alcuni casi oltretutto compiuti da suoi uomini, credo però senza una regia dall’alto – senza correre il rischio di perdere consensi e favorire altre formazioni, ancora più estremiste. E tuttavia queste violenze non gli convengono, sono molto pericolose specie se degenerando portassero a uno scontro aperto con Israele. Hamas infatti non si è ancora ripresa dalla guerra di Gaza dell’estate 2014». E, secondo indiscrezioni della stampa israeliana, fino a poco fa pareva stesse conducendo dei negoziati segreti per una tregua con Israele.
La mancanza di prospettive economiche, di speranze per il dialogo di pace, di elezioni in vista per cambiare la dirigenza palestinese sembrano quindi aver spinto tantissimi giovani ad agire per conto proprio, come schegge impazzite difficili da controllare. «Questo è un grave problema: i giovani non hanno più fiducia nelle forze istituzionali palestinesi, come al Fatah e la stessa Hamas. Non si sentono rappresentati – conclude Yezid Sayigh – e piuttosto che aderire a questi partiti e partecipare alle loro strategie, preferiscono dare sfogo individualmente alla propria frustrazione». E se la dirigenza palestinese non riesce più a controllare la propria popolazione, altrettanto rischia di fare il governo israeliano, spinto dalla collera popolare a reazioni sempre più dure (e spesso controproducenti). In uno scenario di questo genere, il rischio che scoppi una Terza Intifada – dopo quelle di fine anni ’80 e del 2000 – non può essere escluso.