«Se il governo libico ce lo chiede, l’Italia è pronta ad un ruolo guida per l’assistenza e la stabilizzazione della Libia», ha affermato a fine settembre il presidente del Consiglio Matteo Renzi, di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non è la prima volta che il governo italiano dà la propria disponibilità a mettersi a capo di una missione, sotto l’egida dell’Onu, che si ponga come obiettivi la stabilizzazione del Paese africano, il contrasto alla tratta di esseri umani sulla rotta mediterranea e l’annientamento dello Stato Islamico che, approfittando del caos libico, è lì riuscito a mettere radici. Ma tra la disponibilità teorica e l’avvio, in concreto, di una missione si frappongono diversi ostacoli e moltissime insidie.
Da quando le sollevazioni popolari durante la Primavera araba – aiutate dai bombardamenti francesi, inglesi e americani – hanno portato alla caduta della dittatura di Gheddafi, la Libia non è mai riuscita a completare la transizione verso la normalità. Il Paese – in seguito a un percorso politico travagliato e divisivo, scontri armati e attentati – ha ora due governi. Uno, riconosciuto internazionalmente, laico e con sede a Tobruk, è supportato soprattutto dall’Egitto e protetto militarmente dalle truppe del generale Haftar. L’altro, di stampo islamista e dominato dalla Fratellanza Musulmana (la coalizione “Alba libica”), sponsorizzato soprattutto dalla Turchia, ha sede a Tripoli ed è protetto da alcune potenti milizie locali (in particolare dalla brigata di Misurata).
Per mesi le due fazioni si sono scontrate, e del caos risultante ha approfittato lo Stato Islamico che, anche grazie all’impiego di veterani della guerra civile siriana, è riuscito a conquistare prima Derna – da cui è poi però stato scacciato – e ora Sirte. In questo scenario frammentario proliferano poi bande criminali, più o meno politicamente schierate, che si arricchiscono col traffico di esseri umani e di armi. Qualsiasi missione occidentale che portasse militari in questo scenario, senza un vasto accordo preliminare tra fazioni libiche, rischierebbe di trasformarsi in un inutile massacro nello “scatolone di sabbia”. E infatti pre-requisito per un’autorizzazione da parte delle Nazioni Unite all’uso della forza è proprio l’accordo tra Tripoli e Tobruk. Dopo mesi di trattative condotte dall’inviato speciale dell’Onu, lo spagnolo Bernardino Leon, sembra che tale accordo sia finalmente dietro l’angolo.
«Se il governo libico ce lo chiede, l’Italia è pronta ad un ruolo guida per l’assistenza e la stabilizzazione della Libia»
«Le delegazioni dei due governi libici sono in viaggio a New York per parlare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Lunedì dovrebbe votare l’accordo il parlamento di Tobruk e quello di Tripoli poco dopo», racconta Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Affairs esperto di Libia. «Tuttavia a settembre abbiamo assistito all’offensiva dei “falchi” di entrambe le fazioni, e non è un mistero che i parlamentari siano costantemente sotto la minaccia delle armi, in un caso di Haftar, nell’altro delle milizie islamiste. Ci sono infatti fortissimi interessi da parte di diversi attori a che l’accordo salti: Haftar in primis si vedrebbe spogliato del suo ruolo di Capo delle forze armate, e moltissimi altri politici e potenti locali libici perderebbero la propria rendita nel caso si formasse un governo di unità nazionale.
Se la situazione si era stabilizzata (tranne che a Bengasi) negli scorsi mesi – grazie a diversi cessate il fuoco locali, propedeutici all’accordo che sarebbe in dirittura d’arrivo – nelle ultime due settimane si sono sentiti diversi scricchiolii, e ambo i governi stanno preparandosi al peggio. Il “piano B” di Tobruk sarebbe di rinnovare alla sua scadenza (il 20 ottobre) l’attuale parlamento, creare un governo militare e metterne a capo il generale Haftar. Questa soluzione potrebbe piacere molto all’Egitto e a i suoi alleati nella regione. Tripoli invece conta sulla possibilità di proseguire lo status quo, in cui di fatto governa metà del Paese. Quello che nessuno dei due contendenti considera è che i soldi nelle casse dello Stato stanno per finire».
Se l’accordo saltasse sarebbe un grave problema non solo per la Libia, ma anche per l’Europa. La presenza dell’Isis a poche miglia dal confine sud del continente, il costante flusso di migranti dall’Africa attraverso il Mediterraneo e il fiorire di traffici illeciti in una regione sprofondata nell’anarchia sono cause di grave preoccupazione. Ma senza un’intesa tra Tripoli e Tobruk l’Italia, e come lei gli altri Stati europei e la stessa Onu, non è disponibile a invischiarsi nello scenario libico. «Renzi, parlando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha dato un’indicazione abbastanza chiara: senza un accordo blindato tra le fazioni l’Italia non intende intervenire in Libia», spiega ancora Toaldo. «Della prolungata incertezza finora ha approfittato l’Isis. Cacciata da Derna e ancora numericamente “povera” di uomini, ha ora però il controllo su Sirte, città strategica sia per la posizione mediana tra Tripoli e Tobruk, sia per il controllo della – molto redditizia – rotta del traffico di esseri umani, sia per il controllo della “mezzaluna petrolifera” della Libia. Inoltre diversi ex membri del regime di Gheddafi – non dirigenti ma quadri e militanti, diciamo il “secondo livello” – stanno andando a unirsi al Califfato, aumentandone l’expertise militare e il consenso tra la popolazione. All’intesa tra governi mediato dall’Onu bisognerebbe quindi aggiungere un accordo, anche implicito, tra i gruppi armati per combattere l’Isis».
Se l’accordo tra i due governi libici saltasse sarebbe un grave problema non solo per la Libia, ma anche per l’Europa. La presenza dell’Isis a poche miglia dal confine sud del continente, il costante flusso di migranti e il fiorire di traffici illeciti sono cause di grave preoccupazione
Se l’intesa andasse in porto nei prossimi giorni, al massimo settimane, sarebbe dunque probabilmente l’Italia a farsi carico della guida di una missione Onu. «Difficile che gli inglesi reclamino la leadership della missione, Cameron ha già difficoltà a farsi autorizzare i bombardamenti in Siria», dice Toaldo. «I Francesi potrebbero cooperare da sud, avendo già in corso una missione nel Sahel, l’operazione Barkhane (e nel meridione della Libia l’instabilità e il caos al momento sono ai massimi livelli, con una guerra tra gruppi armati che di fatto dal 2011 in poi non è mai terminata e che anzi negli ultimi mesi si è intensificata). Anche altri Paesi, africani e arabi, potrebbero partecipare ma l’Italia – conclude – resta comunque l’opzione più logica, se non l’unica, per un ruolo di guida». La sfida a quel punto sarebbe delle più ardue. Pur non avendo, nelle intenzioni di Renzi e del governo, altro obiettivo che stabilizzare la capitale libica per consentire al nuovo governo di funzionare, la missione internazionale a guida italiana rischierebbe di trovarsi coinvolta in uno scenario instabile dalle molteplici sfide: sconfiggere militarmente l’Isis, ricostruire uno Stato unitario evitando che (ri)sprofondi nella guerra civile, prosciugare le rotte dell’immigrazione clandestina, sradicare la criminalità che con tali traffici si è rafforzata, presidiare le risorse petrolifere ridando fiato all’economia del Paese e, non ultimo, impedire che le spinte contrapposte di Egitto e Turchia (e non solo) lacerino nuovamente in due lo Stato libico. Un genere di impegno, insomma, che la Repubblica italiana non ha finora mai dovuto affrontare nella sua storia settantennale.