Lettera dal carcere di Saadi Gheddafi

Il figlio del Colonnello scrive al vecchio compagno Totò Di Natale. Prigioni, torture, amori e amici nel ricordo di un anno passato assieme all'Udinese

Caro Totò ti scrivo così mi distraggo un po’,

sono nel carcere di Al-Hadba, a Tripoli, accusato di un crimine che non ho commesso: l’uccisione di un calciatore. Un calciatore che uccide un altro calciatore. Non ti sembra assurdo? Gli è bastato avere l’uomo, l’accusa l’hanno trovata poi, ripescando da vecchie storie di quando ero presidente della Federazione Libica e capitano della nazionale. Il tempo scorre lentamente. Vivo in una cella spoglia, con una piccola finestra. Non vedo nessuno a parte i miei aguzzini. L’unica libertà che mi è concessa è un fornello elettrico su cui, la sera, posso cucinare qualcosa. Quando i peperoni, gli spinaci e le melanzane in padella parleranno, mi sentirò meno solo. Di notte il deserto è freddo, la brezza è costante e il riscaldamento non esiste. Di giorno invece il sole proietta strane ombre sul pavimento, quasi a voler affermare che, se voglio uscire, devo prima risolvere gli enigmi nascosti in quelle figure. Oggi è stato un mattino insolitamente uggioso, una rarità per questa città. Niente sole, nessuna sciarada da interpretare. E così mi sono venute in mente le brume di Codroipo, l’odore che la pioggia sospira dai prati di erba viva di Casarsa della Delizia, i focolari di Palmanova. La memoria è come il mare, può restituire brandelli di rottami a distanza di anni. E i miei rottami sono le nostre giornate a Udine. Nessun posto è davvero lontano. Se si desidera essere accanto a qualcuno che si ama, forse non si è già lì?

Alloggiavo all’hotel La’ di Moret, un quattro stelle alla periferia della città. Ristorante eccellente, cantina fornita e punto di ritrovo della gente del calcio. Oltre che di tutto quello che ci girava attorno. Avevo riservato l’ultimo piano dell’hotel, per me, i miei servi, gli autisti, le guardie del corpo, i segretari e la mia cara Dina. Ti ricordi le nostre passeggiate con la Dina? Era la mia regina. Avevo ordinato che dormisse su un letto matrimoniale, mentre il suo istruttore riposava su una cuccia per terra. Veniva servita sempre in camera con cibo di qualità: riso pilaf, i migliori filetti, carote selezionate. Gli occhi di un animale hanno il potere di parlare un grande linguaggio. Me l’hanno sgozzata tre anni fa, quando i predoni hanno saccheggiato la nostra villa di Sirte. Ogni tanto vi immagino con il naso in qualche giornale mentre cercate di capire cosa stia succedendo qui, in questo maelstrom di follia. Vi vedo confabulare sotto le docce, dopo l’allenamento, commentando imbarazzati gli osceni video di tortura che i miei aguzzini hanno girato. L’umiliazione e la tortura sono i mezzi più sicuri per assolvere i robusti scellerati e per condannare i deboli innocenti.

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