L’ultimo squat di Manhattan: come finisce la bohéme newyorchese

Storia della secolarizzazione dell'East Village e del passaggio della controcultura punk a New York, di cui quasi niente è rimasto

In quello che negli Stati Uniti è considerato da molti il romanzo dell’autunno, City on Fire, Garth Risk Hallberg soffia sulle braci della nostalgia per una città che non esiste più e in cui non deve essere stato semplice vivere. La New York della seconda metà degli anni Settanta, tra vetrine infrante e una povertà talmente diffusa da passare inosservata. La criminalità pronta a toccare i massimi storici, la sporcizia e l’aria malsana che dal sottosuolo filtrava per osmosi attraverso i pori del cemento e inondava le strade dello stesso vapore oleoso che oggi viene sbuffato al di sopra delle automobili da tubi arancioni simili al cilindro del Gatto col Cappello di Dr. Seuss. L’orlo sottile del buio baratro della bancarotta che ha posto il sindaco Ed Koch a metà strada tra l’eroismo e il disastro. Ma anche la città che ha fatto da incubatrice per un movimento culturale impossibile da qualsiasi altra parte del mondo, dopo aver rilevato l’eredità parigina della vie bohème. Gli appartamenti che non costavano niente, anche perché spesso inagibili e privi delle comodità essenziali — «There’s no hot water and the cold is running thin», cantava Leonard Cohen in Dress Reharsal Rag — e popolati dagli artisti che non avrebbero potuto permettersi di vivere altrove. La Factory di Andy Wharol, gli scarafaggi del Chelsea Hotel, Max’s Kansas City e naturalmente il punk dell’East Village.

Allora era tutto precario, dall’aspettativa di vita dei posti dove bere per poco alla resistenza fisica degli edifici alle intemperie. La porzione di Manhattan che va da Bowery fino nel cuore di Alphabet City, dove Avenue C diventa Loisada — Lower East Side nello spagnolo newyorchese, in onore dei latini che la abitano —, era una topaia fitta di disperati e geni artistici sconosciuti. Tra i ricordi dell’immigrazione dalla Germania e dall’Est Europa nei primi anni del Ventesimo Secolo, che echeggiano tra l’altro in Manuale del debuttante russo, romanzo di esordio di Gary Shteyngart (Guanda, 2003, traduzione di Katia Bagnoli), e l’affiorare della scena punk rock. Oggi che il CBGB, lo storico locale dove hanno mosso i primi passi Patti Smith, i Ramones e i Blondie, ha seguito il triste destino del Fillmore East e si è trasformato in un negozio all’ingrosso di lavatrici industriali, non resta che la malinconia per un tempo che molti dei nostalgici non hanno vissuto. E la malinconia passa attraverso i racconti e i revival, ma non ha più niente di autentico, nemmeno gli strappi sulle ginocchia dei jeans.

Nell’agosto del 1988 Tompkins Square è esplosa per quella che sarebbe stata una delle ultime volte prima della pulizia forzata della metà degli anni Novanta, quando la polizia ha cercato di sgombrare i senzatetto che vivevano nel parco, sotto gli occhi degli squatter e dei giovani punk che non chiedevano la carità solamente perché non c’era nessuno che avesse in tasca venticinque centesimi e potesse permettersi di liberarsene. L’anima del quartiere implorava l’arresto della gentrificazione. Gli abitanti delle case occupate scendevano in strada con cartelli e striscioni per un assedio che sarebbe durato due giorni e che si sarebbe rivelato inutile. «Non mi ricordo se i poliziotti avevano o meno i distintivi in vista», ha raccontato il poeta Allen Ginsberg, che allora viveva ad Alphabet City, a The New Combat qualche giorno dopo la rivolta. «Picchiavano, picchiavano come matti. Non ho avuto il tempo né il sangue freddo per mandare a mente niente». Tutto intorno si preparava l’inizio della fine per l’East Village che era stato di Joe Strummer — frontman del Clash, del quale non rimane che un graffito alla memoria sul muro del Niagara, sulla Settima Strada — quanto di Kim Gordon — storica bassista dei Sonic Youth, che racconta parte di quella città nella città nel suo memoir Girl in a Band. Ma che soprattutto era appartenuto a chi non aveva alternative e andava a cercare un tetto, prima ancora che una casa.

Il romanzo Scarti, di Jonathan Miles (minimum fax, 2015, traduzione di Assunta Martinese), si apre con i vaneggiamenti lucidi di un senzatetto a caccia di lattine e bottiglie di plastica da riciclare e si addentra tra edifici abbandonati e appartamenti di fortuna calcificati nel tempo, in cui si poteva dormire su un materasso macchiato di muffa all’ombra di un Keith Hering originale, mai registrato dalle associazioni di conservazione dei beni culturali. Anche scavando sotto le macerie, a New York non si trova più niente del genere. Il C-Squat, l’ultima casa occupata di Manhattan tra Avenue C e la Decima Strada, è un dinosauro incastrato tra due palazzine ristrutturate e abbellite dai bar di ispirazione europea, frequentati da turisti hipster e trentenni armati di passeggini e avvolti in complessi sistemi di fasce elastiche da cui pendono le testoline di bambini biondi pacificamente addormentati, facendoli assomigliare a marsupiali fuori luogo e fuori tempo. Dentro non rimangono che le vestigia di una vita passata a sistemare le rovine. Un piccolo museo e il memoriale di Adam Purple, che ha passato i suoi ultimi vent’anni di vita a recuperare spazi inutilizzati per trasformarli in giardini urbani. Qualcuno si ricorda di lui, tra i vecchi abitanti del quartiere, qualcun altro si ricorda degli sgomberi. Dalla fine degli anni Ottanta la polizia è entrata nello squat sempre più di frequente e tutte le volte ha dovuto registrare una sconfitta. Attraverso i movimenti sociali gonfiati e sgonfiati, le proteste accese e sedate, fino agli ultimi colpi di coda di Occupy Wall Street la palazzina è rimasta quella che era. Incapace di trascinare con sé il resto del quartiere. Ad assistere impotente allo scorrere del tempo che proverbialmente lava via tutto, a partire dai ricordi. La storia della controcultura affiora e scompare tra gli incroci dell’East Village, sempre meno convinta e sempre più leggendaria.

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Dicevano i Mano Negra in El Jako, nel 1991: «Avenue B: Here goes the junkie. Avenue C: There’s no rescue». In un video recente, l’attrice Chlöe Sevigny entra in una gelateria alla moda e se lamenta della scomparsa di Max Fish, storico locale frequentato da Lou Reed e Bob Dylan. Ovunque nell’East Village c’è un angolo che è stato qualcosa d’altro, un posto che una volta cadeva a pezzi ma che la gente faceva la fila per visitare. Un brandello di underground che non ce l’ha fatta a uscire in superficie o si è gonfiato così tanto da prendere il volo. Il punk piano piano normalizzato, desantificato e secolarizzato dal passaggio dei tempi. I vecchi abitanti del quartiere, sempre meno numerosi, sono talmente preoccupati che tutto cambi da non rendersi conto che tutto è già cambiato. I movimenti culturali a New York sono di passaggio, da quartiere a quartiere, in maniera permanente.

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