Ci sono immagini che tornano alla memoria quando ci si imbatte nel manifesto della mostra Mc Mafia, la prima esposizione su «mafia, camorra e ‘ndrangheta nella storia del fumetto», inaugurata il 22 settembre a Roma, al Museo di Roma in Trastevere, ed aperta fino all’otto novembre. Sono quelle uscite dopo la strage di Charlie Hebdo, a gennaio. Steve Bell, che raffigura i vignettisti inchiodati, cristologicamente, alle loro matite, in posa da Goya, mentre il fucile, improvvisamente, si inceppa. Oppure il disegno della guerra asimmetrica, penne versus pistole, di Charb, Tignous, Cabu e Wolinski contro i loro carnefici.
Qui, nella locandina, curata da uno dei grandi talenti del fumetto italiano, Gipi, c’è un fotogramma dechirichiano, in cui figure in abiti eleganti si muovono guidate da teste a forma di arma, pronte a sparare. «Pistole di carta e sangue nero d’inchiostro – la mafia come ce l’hanno raccontata i fumetti» è infatti il sottotitolo della mostra, pensata dall’Associazione daSud – nell’ambito di #Restart, primo festival della creatività antimafia e dei diritti (Roma, 22-27 settembre) – e curata dal Museo del Fumetto di Cosenza assieme a Cluster. L’esposizione raccoglie 101 opere di oltre 40 autori, pesi massimi dei comics all’italiana e nomi meno noti, che consentono di comprendere come i fenomeni criminali siano stati raccontati nel corso degli anni e come sia cambiato l’immaginario da loro rappresentato.
Se è vero, come sottolinea il curatore della mostra, nonché responsabile artistico del Museo del Fumetto di Cosenza, Luca Scornaienchi, che le mafie «hanno sempre ispirato la produzione di opere culturali, nel cinema, nella letteratura, nella musica, ma anche nel fumetto», è possibile leggere la rappresentazione del crimine in relazione all’evoluzione storica e culturale del nostro Paese.
Si comincia con le strisce realizzate nel secondo dopoguerra: nelle tavole di storici personaggi, a partire da Dylan Dog, compaiono surreali rappresentazioni del fenomeno mafioso, mentre più realistiche, con atmosfere che ricordano quella Little Italy raccontata da tanto cinema americano – da Mean Streets di Scorsese al Padrino di Coppola – sono le avventure di Nick Rider, agente della squadra omicidi della polizia newyorchese, figura nata dalla matita di Claudio Nizzi.
Nella prima sezione della mostra i protagonisti sono i criminali, dalle opere più datate a quelle recenti, come la serie “Nero napoletano” (a cura della Scuola Italiana di Comix e di Napoli Comicon), una collettiva di cinquanta autori ispirati da fatti, crudi, di cronaca locale. C’è un Matteo Messina Denaro, primula al momento inafferrata, che indossa beffardamente la maglia di Diabolik, c’è un testimone di giustizia, iper-scortato ed iper-mediatico (Buscetta?), e c’è il Don Raffaé di Fabrizio de André (nella realtà, probabilmente, Raffaele Cutolo), «galantuomo» in vestaglia e babbucce, colto nell’atto di osservare il brigadiere, rappresentante di uno Stato che «si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità», che gli prepara il caffè («co’ a ricetta ch’a Ciccirinella compagno di cella ci ha dato mammà», a rigor di testo).
A un certo punto della storia, però, irrompe l’antimafia, con le sue inconfondibili icone. Qui non si vuole entrare nell’eterna querelle tra i movimenti della società civile e i loro detrattori, e sulle accuse di strumentalismo, complottismo e professionismo (a partire dal celebre anatema sciasciano). Qui si vuole rilevare come, nel momento in cui queste figure, dopo la morte, diventano simboliche, i fumettisti non possano non rappresentarle, proprio perché le icone dell’antimafia diventano parte in causa della battaglia pubblica, sono espressione di umori popolari, nonché segni di un indubbio risveglio civico. Quindi, sulle tavole – come al cinema, del resto, e in tv, anche se col rischio “santino” – non ci sono più solo padrini e picciotti, ma personaggi reali, in primo luogo magistrati e giornalisti, da Antonino Caponnetto a Pippo Fava, da Peppino Impastato a Giancarlo Siani (della cui morte è appena trascorso il trentennale), da Falcone e Borsellino (con agende rosse, altro totem) a Mauro Rostagno. Accanto a loro, un prete, Don Peppe Diana (destinatario, come altri personaggi, di un’intera monografia). Nella fusione con un’altra forma popolare, la canzone, il commerciante Libero Grassi, uno degli eroi della lotta anti-pizzo, viene immaginato “sacrificato” a morte mentre ascolta De Gregori (“perché è la gente che fa la storia…).
La sezione migliore, forse, è quella dedicata alla satira, a partire dal manifesto “Pizzo Day” (“il racket apre le porte”). Desacralizzare il crimine (togliergli l’aura mitica, direbbe qualcuno). Un fenomenale Vincino spiega come funzionava la raccolta delle tasse in Sicilia all’epoca dei cugini Nino e Ignazio Salvo, gli esattori di Salemi, e dell’andreottiano Salvo Lima. La criminalità si prendeva il dieci per cento delle imposte, “una specie di Iva aggiunta”. Non si sfuggiva alle tasse in Sicilia, restava una piccola minoranza che, silenziosamente, lottava contro la mafia: gli evasori.
In mostra compaiono quasi tutti i grandi nomi del fumetto italiano, da Staino, con una serie di vignette anti-berlusconiane, a Giuliano (“sulla mafia si esagera, l’alcol ne uccide molti di più”), fino a Bucchi (“la mafia è ormai entrata nel sistema dei vasi comunicanti”). Minore sembra essere l’interesse della satira verso la camorra, nullo quello verso ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita. Non manca, però, l’ultima arrivata, Mafia Capitale: «Almeno in un campo abbiamo superato il complesso del provinciale».