Siamo il Paese dell’olio d’oliva, ma lo importiamo dalla Tunisia

Il livello di produzione non riesce a soddisfare il consumo. Questo dà spazio a una serie di frodi alimentari diffuse e pericolose

Siamo il Paese dell’olio d’oliva. Vergine, extravergine, biologico e a denominazione di origine protetta. È una delle eccellenze del Made in Italy, uno dei simboli della nostra produzione agroalimentare, protagonista della dieta mediterranea e del nostro stile di vita. Non a caso siamo il secondo produttore mondiale. Eppure ogni anno importiamo centinaia di migliaia di tonnellate di olio straniero. Arriva sulle nostre tavole dalla Spagna, ma anche da Grecia e Tunisia. È un fenomeno in parte necessario, per soddisfare l’elevata domanda interna. Ma che spesso, a causa del basso costo delle materie prime straniere, finisce per aumentare la diffusione di frodi alimentari. Pratiche illecite che danneggiano la nostra economia e mettono a rischio la salute dei consumatori.

Per scoprire i pericoli che corre l’olio italiano, adesso il Parlamento, proprio in questi giorni la commissione di inchiesta sulla pirateria e il commercio abusivo ha approvato un approfondimento sulla contraffazione nel settore dell’olio di oliva affidato un anno fa alla vicepresidente Colomba Mongiello. È stato un lavoro lungo e articolato: per scoprire i punti deboli della filiera e le frodi più frequenti, i deputati hanno studiato le principali inchieste giudiziarie degli ultimi anni, convocando a Montecitorio rappresentanti del mondo produttivo, delle forze dell’ordine e le procure della Repubblica di Siena, Trani e Bari, tra le più impegnate sull’argomento.

Il primo dato che emerge riguarda l’eccellenza dell’olio d’oliva italiano. Una ricchezza strategica per tutto il Paese. Basta pensare che la produzione olearia italiana interessa oltre 150 milioni di piante distribuite su una superficie di 1.165.458 ettari. Un sistema che occupa oltre 700mila aziende agricole, quasi 5mila frantoi e 220 imprese industriali. L’Italia può contare su oltre 40 denominazioni di origine protetta, in Europa nessuno è come noi. Siamo il secondo produttore mondiale di olio d’oliva e il terzo produttore europeo di olive da tavola. Solo nel 2014 il nostro Paese ha prodotto 483mila tonnellate d’olio, pari a un fatturato di 3,3 miliardi di euro. L’olio extravergine italiano è un prodotto unico al mondo, il solo a vantare tante varietà e tipologie. Il documento parlamentare non risparmia i dettagli: «Si parte dall’olio delicato, dall’aroma dolcissimo e pronto per il consumo immediato, a quello fruttato, ricco di sapore. Tra questi si distinguono gli oli extravergine con sensazione erbacea e quello con retrogusto amaro di mandorla con pizzicore lieve. L’olio giallo oro, con tonalità intense e velato e l’olio dai riflessi verdi ed aranciati con profumi di erba di sfalcio».

Eppure siamo il primo importatore mondiale di olio. In parte è una questione fisiologica. Secondo i dati raccolti dalla commissione, il consumo interno di olio d’oliva raggiunge in media le 600mila tonnellate l’anno – senza considerare il prodotto che viene esportato – a fronte di una produzione di circa 400mila tonnellate. Così nel 2013 sono arrivate in Italia 460mila tonnellate di olio straniero. Almeno metà viene dal mercato spagnolo, il resto soprattutto da Grecia e Tunisia. E nei prossimi anni la quota è destinata ad aumentare. Anzitutto a causa delle avversità climatiche e della fitopatologia della Xylella, che nell’ultimo biennio hanno comportato una diminuzione dei volumi di olio prodotto in Italia di circa il 40 per cento. Ma anche per le decisioni di Bruxelles, che ha recentemente autorizzato un ulteriore ingresso senza dazio di olio tunisino in Europa, con l’obiettivo di sostenere la ripresa dello stato nordafricano.

La produzione olearia italiana interessa oltre 150 milioni di piante distribuite su una superficie di 1.165.458 ettari. Un sistema che occupa oltre 700mila aziende agricole, quasi 5mila frantoi e 220 imprese industriali

E proprio qui nascono i problemi. «Il basso costo delle materie prime estere – si legge nella relazione della commissione – è uno dei fattori di rischio e di crescita della diffusione delle frodi, dal momento che l’attribuzione illecita della qualità di extra-vergine o vergine e di un’origine nazionale ad un olio meno pregiato e con caratteristiche organolettiche di categorie inferiori, consente di lucrare ampi margini di guadagno». Insomma, quando condiamo un’insalata o una bruschetta siamo sicuri dell’olio che usiamo? Il documento parlamentare analizza i principali fenomeni di illecito. Un campionario inquietante che passa dalle alterazioni del prodotto a vere e proprie sofisticazioni. Tra le pratiche più diffuse c’è il cosiddetto “olio di carta”. Si tratta di produzioni fittizie di olio extravergine, supportate da false fatturazioni, attraverso cui si introducono nel nostro Paese «oli d’oliva stranieri che sono in tal modo inseriti tra le produzioni extravergini italiane ed immessi in commercio come oli di origine italiana». È un fenomeno che fino a pochi anni fa sfiorava le 100-200mila tonnellate annue (fino al 30 per cento in più della produzione reale). Ma che negli ultimi tempi – soprattutto grazie all’introduzione del Servizio Informativo Agricolo Nazionale – sembra essersi ridotto «a qualche decina di migliaia di tonnellate».

Impossibile non ricordare l’uso di “olio deodorato”, uno degli illeciti più frequenti. È un processo di lavaggio degli oli di bassa qualità, spesso in cattivo stato di conservazione, che elimina difetti sensoriali del prodotto come il cattivo odore, il gusto acre e l’eccessiva acidità. «Il tal modo olio d’oliva, spesso di origine non italiana, è immesso fraudolentemente in commercio come olio extravergine di oliva al 100 per cento Made in Italy».

Gli illeciti proseguono. La commissione ricorda l’utilizzazione illecita delle denominazioni d’origine: una falsificazione delle indicazioni geografiche tutelate e delle denominazioni protette per sfruttare la qualità e la fama di prodotti ben più meritevoli. Spazio, poi, alle diffuse pratiche dell’Italian sounding. Contraffazioni che riguardano quasi unicamente mercati stranieri, finalizzate alla produzione e commercializzazione di oli esteri con una «falsa evocazione dell’italianità del prodotto». In questo caso non c’è una precisa falsificazione, insomma. Ma un uso scorretto di nomi, colori, simboli ed etichette che in qualche modo evocano – senza alcuna giustificazione – l’origine italiana dell’olio in vendita. È un fenomeno dalle conseguenze impensabili, ma devastanti.

«A livello economico – si legge nella relazione – l’impatto dell’imitazione dei prodotti agroalimentari italiani risulta assai rilevante, con un fatturato che si aggira attorno ai 60 miliardi di euro l’anno». Stando al Rapporto Agromafie elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura citato dalla commissione di inchiesta, si tratta «di un valore quasi doppio rispetto al fatturato delle esportazioni agroalimentari nazionali, che ha raggiunto la cifra record di 34 miliardi nel 2013».

Tra le pratiche più diffuse c’è il cosiddetto “olio di carta”. Si tratta di produzioni fittizie di olio extravergine, supportate da false fatturazioni, attraverso cui si introducono nel nostro Paese «oli d’oliva stranieri»

Le contromisure per difendere il nostro olio d’oliva non mancano. La commissione ricorda l’introduzione della legge n. 9 del 2013, un intervento normativo che ha permesso di adeguare gli strumenti di contrasto agli illeciti, garantendo un maggior controllo di tutta la filiera del prodotto. Un passaggio importante della relazione riguarda le più recenti vicende giudiziarie. Da questo punto di vista un ruolo di primo piano spetta sicuramente alla Procura di Siena, che nell’ambito delle inchieste “Arbequino” e “Fuente” ha sequestrato quasi 9mila tonnellate di olio d’oliva. «Pari al 92,7 per cento del totale sequestrato sull’intero territorio nazionale». Del resto sono numerosi i soggetti che tutelano il settore. Solo il Nucleo anti-frode dei Carabinieri negli ultimi cinque anni ha operato controlli su 418 aziende, sequestrando oltre 3.100 tonnellate di prodotto per un totale di oltre 11 milioni di euro. Centrale il ruolo della Guardia di Finanza, che dal 2011 al 2014 ha sequestrato per frodi quasi 10mila tonnellate di olio d’oliva. Senza dimenticare l’attività svolta dal Corpo forestale dello Stato e dall’Ispettorato Centrale della tutela della qualità e repressioni frodi dei prodotti agroalimentari.

E poi ci sono i NAS, il Nucleo anti-sofisticazioni e sanità dell’Arma dei Carabinieri, che in ogni biennio di attività ha eseguito 99mila controlli «registrando una percentuale del 29 per cento di non conformità dei prodotti testati». Questo non significa che un prodotto su tre è frutto di un illecito, ovviamente. Anche perché in questo caso si tratta di controlli mirati, «con metodo di intelligence – spiega la commissione – e non con modalità random». Nel documento parlamentare si ricorda l’operazione “Soia d’oro”, che ha recentemente portato alla denuncia di 17 persone per sofisticazione «e messa in commercio di olio di soia venduto come olio extravergine» attraverso inesistenti aziende pugliesi. Particolarmente significativa, poi, è stata l’operazione dei Carabinieri avvenuta a Roma nel 2012 con il sequestro di oltre otto quintali d’olio destinati ad alcuni ristoranti della Capitale. Secondo le etichette trovate dai militari si trattava di olio extravergine, in realtà era una miscela di olio di soia addizionato a clorofilla.

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