Hollande, senti qua: «Più welfare, meno bombe. Così si sconfigge Isis»

Benedetta Berti, lecturer all'Università di Tel Aviv: «Studio gruppi come l’Isis da dieci anni: bombardare serve a poco o niente. Bisogna riempire i gap di infrastrutture dove proliferano»

Cosa fanno i gruppi come l’Isis quando non combattono? È questa la domanda da cui partire per capire come intervenire oggi in Siria e Iraq. Così la pensa Benedetta Berti, Lecturer dell’Università di Tel Aviv con alle spalle una attività incessante da ricercatrice tra Americhe e Medio Oriente. Berti ha passato gli ultimi dieci anni a studiare i “non-state groups”, organizzazioni violente e non statali come Hezbollah, Hamas e Isis. E li osservati da dietro le quinte, quando non sparano o attaccano. Ha analizzato i servizi di sicurezza offerti alla popolazione, la raccolta dei rifiuti per le strade, la costruzione di scuole, di ospedali. Ha studiato le loro attività economiche e la comunicazione strategica per reclutare nuovi miliziani. E lo ha fatto vivendo con loro, quando possibile, o captando le direttive inviate nel dark web dai militanti di Isis alle varie province del cosiddetto Califfato tra Siria ed Iraq.

Dietro la punta visibile a noi occidentali – fatta di video-decapitazioni, rappresaglie, attacchi terroristici – c’è un gigante iceberg che merita molta più attenzione

È sulla base di queste ricerche che oggi afferma con convinzione questo: i bombardamenti occidentali contro i gruppi islamisti sono piuttosto inutili. Ne indeboliscono l’apparato militare, sì. Ma non il potere di controllo sul territorio. Soprattutto, non riempiono, ma anzi estendono, quei gap dentro cui i gruppi armati nascono e proliferano: il vuoto di servizi offerti ai cittadini da parte di stati locali deboli. Uno stato di emergenza perenne dentro cui è più facile reclutare nuovi jihadisti.

La guerra oggi non è più tra stati, ma tra stati e non-stati

Dietro la punta visibile a noi occidentali – fatta di video-decapitazioni, rappresaglie, attacchi terroristici – c’è un iceberg che merita molta più attenzione, ci dice oggi Berti. È un punto di vista che ci sembra fondamentale acquisire oggi, al tempo in cui la guerra – dice sempre Berti – non è più tra stati, ma tra stati e gruppi non statali.

Ci chiarisce innanzitutto cosa intende per «non-state groups», i gruppi non statali di cui si occupa nelle sue ricerche?
I «non-state groups» sono tutti quegli attori che, dato uno stato, operano al di fuori delle sue istituzioni, e che impiegano la forza per raggiungere i loro obiettivi. Sono milizie o organizzazioni terroristiche che nascono al temine di un conflitto. Oppure attività di guerriglia e criminalità organizzata nelle grandi megalopoli. Insomma, tutto ciò che mette in discussione il potere dello Stato. Mi sono occupata di casi diversi, ognuno con le sue specificità, ma tutti uniti da questi due elementi: estraneità alle istituzioni statali, uso della violenza e apparati militari a disposizione. Studio come operano, ma anche le politiche da usare per disarmarli e aprire un dialogo.

«Isis ha un’organizzazione complessa che va oltre il semplice apparato militare»

Considera Isis uno di questi «non-state groups»?
Sì, certo. E come molti altri (Hezbollah in Libano e Hamas nella Striscia di Gaza, ad esempio) Isis ha un’organizzazione complessa che va oltre il semplice apparato militare, l’unico che l’Occidente sembra vedere. Isis è nato dalle radici di Al Qaeda in Iraq sulla base di un nuovo progetto di controllo del territorio e della popolazione. Un obiettivo, quest’ultimo, che intende raggiungere sì con l’uso della violenza, ma anche con la creazione di un vero e proprio welfare statale. Quando conquista una nuova porzione di territorio, la prima cosa che lo Stato Islamico fa è di assumere il controllo delle infrastrutture: scuole, centrali elettriche, polizia.

«Puoi indebolire militarmente Isis, ma il gruppo potrebbe semplicemente spostarsi geograficamente, ad esempio. Oppure potrebbe sciogliersi e dare vita a splinter ancora più radicali».

Sulla base di tutto questo, crede che l’inasprimento delle operazioni militari di nazioni occidentali come la Francia contro le postazioni Isis possa essere efficace?
I bombardamenti possono senz’altro indebolire l’apparato militare del gruppo. Ma possono anche peggiorare la situazione nel lungo termine. Il problema in questo caso è strutturale. Isis è riuscito ad emergere grazie a due crisi molto profonde. La prima, quella dell’Iraq post 2003, uno stato rimasto senza un progetto di ricostruzione solido, affidato a un governo centrale debole e corrotto, e che ha escluso una parte consistente della popolazione. La seconda, quella della guerra civile siriana: un altro vuoto di potere. Questo significa che senza una stabilizzazione della situazione, Isis o altri gruppi ancora più radicali continueranno a rifiorire. Puoi indebolire militarmente Isis, ma il gruppo potrebbe semplicemente spostarsi geograficamente, ad esempio. Oppure potrebbe sciogliersi e dare vita a splinter ancora più radicali. Non bisogna dimenticare che Isis è diventato anche un’idea cui altre milizie in altre parti del mondo aderiscono. È un progetto complesso e di lungo termine.

In che senso un’operazione militare potrebbe peggiorare la situazione?
Si aggraverebbe l’emergenza umanitaria già profonda, creando le condizioni migliori per reclutare nuovi jihadisti.

Va sostenuta la società civile, i progetti di sviluppo civile locali, per riuscire a colmare quella mancanza di servizi primari da parte governativa che spiana le porte a Isis e al controllo territoriale.

Quali sono allora le strategie migliori per affrontare la minaccia dell’Isis?
Nel breve periodo bisogna sicuramente migliorare le capacità di intelligence e di scambio di informazioni tra nazioni in Europa per prevenire nuovi attacchi. Poi bisogna cercare di arrivare a una soluzione politica in Siria, lavorando con l’opposizione siriana e con le forze curde. Il tutto sempre in un ‘ottica di messa in sicurezza del territorio. E di riduzione del vuoto di potere. Occorre poi pensare al day after. Non c’è solo un’emergenza sicurezza. C’è soprattutto un’emergenza umanitaria che è ulteriore fonte di instabilità. Bisogna sostenere economicamente le organizzazioni impegnate nella gestione dei profughi, e nazioni come Giordania e Libano ormai vicine all’implosione. Va sostenuta la società civile, i progetti di sviluppo civile locali, per riuscire a colmare quella mancanza di servizi primari da parte governativa che spiana le porte a Isis e al controllo territoriale.

Immagina anche un maggiore intervento delle nazioni occidentali nell’offerta di servizi alla popolazione?
Lungi da me l’idea di aumentare ulteriormente la presenza occidentale dentro le società arabe. Credo sia più opportuno invece sostenere economicamente progetti locali già esistenti, aiutare la società civile a colmare da sé vuoti di servizi.

«Nell’estate appena trascorsa un gruppo di tribù sunnite nei territori del “Califfato” si è ribellato. La conseguenza è stato un massacro di massa»

Sappiamo che a Baghdad, in Iraq, ogni venerdì ci sono proteste contro il governo e la corruzione dei suoi membri. Si può sperare in una rivolta dall’interno anche della popolazione sottomessa dall’Isis?
Le poche testimonianze che ci arrivano ci fanno capire che siriani ed iracheni accettano contro voglia le brutalità di Isis. Se facessimo dei sondaggi, per dire, è chiaro che la maggior parte delle persone si direbbe contraria. Ma sappiamo anche che questa popolazione vive in una condizione di dipendenza dai miliziani. Economica, prima di tutto: gli islamisti sono gli unici capaci in questo momento di fornire servizi base. Ma c’è anche una repressione totale che rende impossibile ogni rivolta da dentro. Nell’estate appena trascorsa un gruppo di tribù sunnite nei territori del “Califfato” si è ribellato. La conseguenza è stato un massacro di massa, fatto anche per inviare un messaggio forte al resto della popolazione.

Quali fonti usi per le tue ricerche?
In passato ho sempre preso contatti diretti con i gruppi che studiavo. Con Isis è diverso. L’accesso diretto alle aree da loro controllate è impossibile. Lavoro studiando le comunicazioni che i miliziani passano sui loro canali nel dark web, come le direttive per le diverse province del “Califfato”. E ho fonti locali che mi sono costruita in dieci anni di lavoro. Mi è utile anche la mia attività di consulente umanitaria per i rifugiati siriani: li intervisto e mi faccio raccontare quello che hanno vissuto nel caso in cui provengano dai territori controllati da Isis.

Considerando che l’attacco di Parigi è stato organizzato grazie alla disponibilità di jihadisti francesi, credi che la tua teoria possa applicarsi anche a capitali europee come Parigi? Quella cioè di riempire gap lasciati dai governi locali nell’offerta di infrastrutture, scuole, ospedali, opportunità di sviluppo e coinvolgimento nella società, evitando che «non-state groups» prendano il sopravvento…
Il mio lavoro si concentra soprattuto su stati deboli e situazioni di conflitto o post-conflitto. Per questo esito a dire che il mio approccio sia valido anche per Parigi, perché non ho studiato il caso. Detto questo, è piuttosto chiaro che la mancanza di opportunità economiche, infrastrutture, accesso e esperienze di difficoltà di integrazione nelle periferie di metropoli europee contribuiscono tutte a creare insicurezza.

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