Il più chiaro di tutti, al G20 di Antalya (Turchia), è stato il presidente russo Vladimir Putin: «L’Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20». Un’accusa che non ha suscitato reazioni ad alti livelli, perché il problema è reale. Qualcosa ora potrà cambiare, perché allo stesso G20 è stato deciso un nuovo giro di vite sui controlli che devono effettuare le istituzioni finanziarie e le giurisdizioni. Sotto osservazione rimangono i Paesi del Golfo, che finora si sono distinti soprattutto per la loro ambiguità.
Le fonti di finanziamento
Come ha scritto la Brookings Institution nell’analisi “Cutting off Isis’ cash flow” (Tagliare la liquidità all’Isis), «lo Stato Islamico è l’organizzazione terroristica meglio finanziata che abbiamo combattuto» e «non c’è una pallottola d’argento o arma segreta per svuotare i forzieri dell’Isis in una notte».
Secondo il centro studi di Washington il peso principale degli introiti del “Califfato” è dato dal petrolio. Un anno fa i ricavi dall’oro nero erano di circa 1 milione di dollari al giorno. Pochi giorni fa un’analisi del Financial Times ha alzato la stima a 1,5 milioni al giorno. Si tratta quindi di più di 500 milioni di dollari all’anno. La maggior parte di questi introiti, tuttavia, non vengono da fuori. La Turchi è stata una delle principali destinazioni del contrabbando, ma il commercio è andato diminuendo, a quanto pare, per effetto del calo del prezzo del greggio.
Seguono poi i ricavi da rapimenti (secondo le stime del Fatf tra i 20 e i 45 milioni di dollari nel primo anno di vita del Califfato), quelli dalla vendita di opere d’arte (circa 10 milioni di dollari) e quelli da furti ed estorsioni (5-6 milioni di dollari).
«L’Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»
Il grosso dei finanziamenti all’Isis viene dal petrolio venduto alla popolazione del “Califfato”, non dalle donazioni dall’estero
I finanziamenti occulti
Non ci sono invece cifre, da parte della Brookings Institution, sull’entità dei finanziamenti all’Isis. I grandi accusati sono i donatori privati del Qatar e dell’Arabia Saudita e le istituzioni finanziarie del Kuwait. Contro queste ultime ha più volte puntato il dito la stessa Brookings Institution, nonostante dallo scorso settembre nel piccolo Stato a sud dell’Iraq siano state approvate norme molto più restrittive sul controllo dei capitali sospetti.
Tali finanziamenti sarebbero “minimali”, rispetto alle altre fonti di introiri dell’Isis. A dirlo è il Fatf , un’istituzione internazionale costituta nel 1989 in chiave anti-riciclaggio e che dall’11 settembre in poi è stata utilizzata per combattere i finanziamenti ai gruppi terroristici. Le donazioni dovrebbero comunque essere nell’ordine delle decine di milioni di euro e per rendersene conto basta guardare l’entità dei fondi congelati negli ultimi anni dai principali Paesi del Golfo e occidentali, come riporta la tabella di uno degli ultimi documenti dell’istituzione.
Solo l’Arabia Saudita ha congelato fondi per 31 milioni di euro, mentre gli Stati Uniti per oltre 20 milioni. Molti altri Paesi, invece, non hanno rilasciano informazioni o dichiarano di non avere fondi congelati. Tra questi ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti.
Il Fatf nel suo documento ufficiale preparato in occasione del G20, elenca tutti problemi che si stanno incontrando nel mettere a punto la strategia. È vero che quasi tutte le giurisdizioni hanno criminalizzato finanziamenti finalizzati ad atti terroristici come un reato a sé (il 71% del totale delle giurisdizioni e il 98% di quelle dei Paesi aderenti al Fatf). Ma molte meno (solo il 55%) hanno deciso di considerare illecito il finanziamento a organizzazioni terroristiche se non direttamente collegato a degli atti terroristici. Inoltre, solo il 17% delle giurisdizioni ha effettivamente emesso delle sanzioni. Tra queste, ancora una vota spiccano per numero l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti.
Solo l’Arabia Saudita ha congelato fondi per 31 milioni di euro, mentre gli Stati Uniti per oltre 20 milioni. Molti altri Paesi, invece, non hanno rilasciano informazioni o dichiarano di non avere fondi congelati. Tra questi ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti
Molto inefficaci, secondo il Faft, sono poi le misure per contrastare i finanziamenti finalizzati ai viaggi dei foreign fighters. Viaggi che spesso includono l’addestramento presso gruppi terroristici. Infine, a essere messa sotto accusa è la lentezza con cui gli Stati mettono in atto le misure restrittive contro i gruppi inseriti nelle liste dei terroristi. Dovrebbero essere operative in poche ore, mentre in realtà spesso passano giorni o settimane: un regalo ai fiancheggiatori dei terroristi, che hanno tutto il tempo di ritirare il denaro.
Le nuove linee guida del Fatf, adottate dal G20, prevedono un follow up per le singole giurisdizioni che hanno questi problemi e una revisione restrittiva degli standard sul finanziamenti dei gruppi terroristici. Ma che si passi davvero dalle parole ai fatti è tutto da dimostrare.