Do un’occhiata alle mail, dice Agnese sfiorando l’egòfono appoggiato sul tavolino del bar.
Le dico: devi farlo proprio adesso?
Perché, dice lei, che differenza c’è tra adesso e dopo?
Che adesso sei con me, siamo seduti allo stesso tavolino dello stesso bar della stessa città alla stessa ora della stessa giornata. Volendo possiamo parlare un poco tra noi. O addirittura di noi. Proprio come fanno gli innamorati, Le dico.
Ma per parlare abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Mi dice.
Anche per guardare le mail abbiamo tutto il tempo che vogliamo, le dico. Magari possiamo guardare le mail quando siamo ognuno per conto proprio. Lascia stare quell’aggeggio, per piacere. Parla con me. Vuoi provare a parlare con me?
Lei, Agnese, è ossessionata dalle notifiche mail del suo cellulare, anzi, del suo egòfono. Lui, Giulio, è ossessionato dall’ossessione della sua ragazza, come da mille altre idiosincrasie dell’epoca contemporanea. Giulio ha 36 anni, vive in provincia, a Capannonia, un non luogo non meglio precisato nella galassia informe della pianura del Nord. Giulio e Agnese sono come tutti noi, però non esistono. O meglio, esistono nelle pagine di un romanzo, l’ultimo di Michele Serra, intitolato Ognuno potrebbe, pubblicato da Feltrinelli all’inizio del mese di ottobre.
È difficile in realtà definire Ognuno potrebbe come un romanzo; è piuttosto un diario dell’alienazione, dell’inquietudine, dello spaesamento, della nausea di Giulio, un ragazzo non ragazzo come tanti di noi, figli degli anni Ottanta, che a poco più di 30 anni non siamo né vecchi né giovani. Giulio è incagliato come tutti noi in un Paese di provincia come l’Italia — che è provincia anche quando è metropoli — fa un lavoro che sembra poco un lavoro ed è alle prese con un’insofferenza patologica per le ossessioni altrui, con un vuoto dentro che ogni tanto sembra sfociare nella sociopatia.
Tra un secolo si parlerà di noi come di quelli che hanno dovuto fare fronte al massimo grado della compulsività dei consumi, dei bisogni, del desiderio senza freni. E spero che possano dire: ce l’hanno fatta. Con fatica, con qualche sconfitta, ma sono riusciti a tornare padroni delle loro scelte.
Ognuno potrebbe ha il merito di oltrepassare Giulio, diventa un registro delle ossessioni dell’Uomo all’epoca della sua più totale egomania: l’epoca dell’Io, il presente senza limiti di una società che sembra proprio non avere un futuro.
«In Ognuno potrebbe, l’uso compulsivo della tecnologia ha grande spazio, è vero», ammette Michele Serra, raggiunto da Linkiesta. «Ma», continua, «quel libro è un romanzo: ovvero il racconto letterario, trasfigurato, di una situazione specifica, quella di Giulio e delle sue idiosincrasie per alcune delle psicopatologie della nostra epoca. Difendo la specificità e la fragilità del mio racconto, di quel racconto, perché uno scrittore deve sempre difendere il testo dal contesto. Ovvero, devo difendere Giulio da me. Il mio libro da me».
Egòfoni, selfie, personal branding, selfpublishing: il nostro ego è diventato un’ossessione di massa in questi ultimi anni. Cosa ci è successo? Perché siamo così schiavi di noi stessi e dei nostri desideri?
Non credo che il problema sia la tecnologia. Il problema è l’“obbligo del desiderio” di cui parlava Lacan. Giorgio Gaber lo tradusse benissimo in Libertà obbligatoria. La tecnologia dà una formidabile occasione di esercitare con successo, e con poca spesa, questo “obbligo del desiderio”. Ma il meccanismo precede la tecnologia. È il meccanismo dei consumi, ovvero della potenziale smisuratezza di ogni consumo. Della sua compulsività. È ancora Marcuse, cinquant’anni dopo.Una volta lo eravamo veramente di meno o è la classica percezione del “prima era tutto meglio”?
Lo eravamo di meno, ma non vuol dire che stavamo meglio. C’erano le guerre e la fame, cose brutte che ci impedivano di badare a noi stessi. Prima, dunque, era tutto peggio. Le donne partorivano, gli uomini combattevano. La vita media era circa la metà. Non avevamo tempo di guardarci allo specchio, se non le classi colte e i ricchi nullafacenti. La nostra fuoriuscita dal bisogno, intendendo per “noi” la grande maggioranza delle persone, ha cambiato tutto. Ha risolto alcuni problemi, ne ha aperti altri: la sazietà ha le sue patologie.Una volta eravamo meno schiavi del nostro ego, ma non vuol dire che stavamo meglio. C’erano le guerre e la fame, cose brutte che ci impedivano di badare a noi stessi. Le donne partorivano, gli uomini combattevano. La vita media era circa la metà. Non avevamo tempo di guardarci allo specchio, se non le classi colte e i ricchi nullafacenti.
Dove si ferma la critica alla contemporaneità e comincia il nostalgismo?
Quando scrivo non posso sempre domandarmi se criticare la contemporaneità mi espone al rischio di sembrare reazionario. So di non esserlo e questo mi basta. E so anche di non poter cedere al ricatto intellettuale secondo il quale chi “parla male” dei nostri giorni, o comunque li tratta senza compiacenza, allora vuol dire che è un nostalgico. È una scemenza, questa, che lascio ai lettori disattenti, tra i quali anche non pochi critici.C’è qualche possibilità di invertire la rotta?
La risposta, ovviamente, è non lo so. Credo, questo sì, che ci saranno molte vie d’uscita individuali, o di piccole avanguardie. Tra un secolo si parlerà di noi come di quelli che hanno dovuto fare fronte al massimo grado della compulsività dei consumi, dei bisogni, del desiderio senza freni. E spero che possano dire: ce l’hanno fatta. Con fatica, con qualche sconfitta, ma sono riusciti a tornare padroni delle loro scelte. Perché questo solo è il problema: è libero chi è padrone di scegliere. Se no, è schiavo, e lo è che abbia venti o settant’anni, che sia povero o ricco.Questo solo è il problema: è libero chi è padrone di scegliere. Se no, è schiavo, e lo è che abbia venti o settant’anni, che sia povero o ricco.
Nei suoi ultimi romanzi c’è una forte componente di “critica generazionale”. Non crede che in Italia si sia formata, da entrambe le parti, una ossessione per l’aggettivo “generazionale”?
Non mi piace l’aggettivo “generazionale” e non lo uso mai. Mi rendo conto che Gli sdraiati, che racconta il difficile rapporto tra un padre e un figlio, può sembrare un romanzo “generazionale”. Ma è soprattutto una riflessione esistenziale sulla caduta del principio di autorità: e riguarda i padri assai più dei figli. Il vero bersaglio di quel libro, come sa bene chi l’ha letto, è il padre, non il figlio.A un certo punto nel suo romanzo parla di “sensazione che le generazioni si stiano insaccando l’una nell’altra, che il tempo si sia ingolfato, abbia perduto il suo ritmo e quasi interrotto il suo scorrere”. A cosa è dovuto questo rallentamento temporale?
In Ognuno potrebbe, il protagonista ha 36 anni perché mi interessava che avesse una “età di mezzo”, non giovane e non vecchio. Mi sembrava la più indicata a rappresentare un blocco, una crisi, un intoppo nel corso della storia sociale del nostro paese. Una sensazione di “tempo fermo” che è l’idea stessa di quel libro, nel quale i verbi sono tutti al tempo presente. Nel libro scrivo che siamo TUTTI ragazzi, dai dieci ai novant’anni. In questo senso è il contrario esatto di un libro “generazionale”. È un paradosso, quello del “tutti ragazzi”, che allude alla “bambinizzazione” generalizzata, utile alla società dei consumi per perpetuarsi, per avere a sua disposizione consumatori docili e ingordi. Narcisi e infantili, è la clientela ideale per i venditori di qualunque cosa: compresi i venditori di tecnologia, ovviamente.Per secoli il motore principale dell’arte sono stati due ingredienti: l’ego e l’ossessione per il tempo che scorre. Entrambe le cose ora sono a disposizione di tutti, ma quali sono le conseguenze?
Il momento è molto caotico. Si nutre di speranze legittime (ognuno potrebbe diventare John Lennon o Einstein o Proust) ma anche di equivoci micidiali. Trovo profondamente crudele l’illusione di primeggiare spacciata come una droga, pur sapendo benissimo, ciascuno di noi, che la classifica non è fatta solo di primi, le posizioni vanno dal primo al decimiliardesimo posto. Ma soprattutto: bisognerebbe che ognuno sapesse farsi una “sua” classifica e una opinione autonoma di se stesso. La cosa spaventosa è dipendere in modo totale dal giudizio degli altri, dal riconoscimento degli altri, dalla benevolenza degli altri, dai “mi piace”, non darsi mai scampo, non bastarsi mai. Conosco contadini felici e ministri infelici (e viceversa, ovviamente). L’invidia sociale è il motore della storia se genera rivoluzioni, movimenti sociali imponenti, virtuosi, vincenti. Ma se genera solo frustrazione, è un mostro che divora il cuore e il cervello delle persone.Viviamo in un’epoca di massima sfiducia negli altri, dunque di una crisi radicale di ogni forma di mediazione: il complottismo ne è la manifestazione più evidente. Tutti credono di sapere “chi è stato”, anche quando non sanno niente di se stessi. La battuta del secolo è quella di Altan: “Mi chiedo chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio”
Che fine fa il talento e la creatività dal momento che tutti pensano di possedere entrambi? Che fine fa il gusto
Per quanto riguarda l’arte, il gusto e l’estetica si formeranno nuove avanguardie e nuove classi dirigenti, ma nessuno ha ancora capito il “come”. Il problema della selezione è il più grande dei problemi dentro questa democrazia “esplosa”, che rifiuta gli antichi criteri ideologici ma ancora non ne ha varati di nuovi. Nel web c’è un’enormità di stimoli e moltissimi giovani autori formidabili (penso alla satira, per esempio); ma fanno fatica a diventare “corrente”, a raggrumarsi, a fare tendenza e a fare scuola.Dal punto di vista delle informazioni e della creazione di un’opinione, che effetto ci fa il bombardamento a cui siamo sottoposti?
Credevo poco al mito dell’ “uomo informato” anche da giovane, quando ho cominciato con entusiasmo a fare il giornalista. Mi sembrava precaria ogni frase, tendenziosa ogni fonte. Figuriamoci adesso. Credo che il mito del “palinsesto” fai da te, ovvero del libero navigatore che cliccando cliccando si crea una sua griglia di verità, sia patetico e demagogico. Servono le mediazioni, sempre: sono mediatori i medici, gli elettricisti, gli idraulici, è una mediazione anche l’informazione. Dobbiamo affidarci agli altri, imparare dagli altri, fidarci degli altri, oppure siamo morti. Meglio, è morta la società. Viviamo in un’epoca di massima sfiducia negli altri, dunque di una crisi radicale di ogni forma di mediazione: il complottismo ne è la manifestazione più evidente. Tutti credono di sapere “chi è stato”, anche quando non sanno niente di se stessi. La battuta del secolo è quella di Altan: “Mi chiedo chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio”.C’è una via d’uscita?
Il primo passo verso la salvezza sarà riuscire a individuare luoghi e persone che ottengano, daccapo e per meriti nuovi, credibilità e fiducia. Autorevolezza. Né i partiti né i giornali né i giornalisti, in questo momento, ne hanno. Con pochissime eccezioni. E dunque deve riformarsi quasi da zero una nuova classe dirigente, sul web e ovunque. Fino a che non si rimettono in moto i meccanismi di selezione – dunque la politica, dunque l’organizzazione culturale, dunque la scuola – siamo fottuti.N.d.R.: questa intervista è stata realizzata prima degli attentati di Parigi