Processo Stato-Mafia, Calogero Mannino assolto. As-sol-to. L’accusa aveva chiesto nove anni e il calvario giudiziario dell’ex ministro democristiano siciliano dura da venticinque anni. Roba da uccidere chiunque. Mannino ha resistito, come Andreotti prima di lui, e a 77 anni ha visto riconosciuta la sua innocenza. Un sigillo, dopo un lungo calvario, per il più volte ministro ed esponente tra i più significativi della sinistra democristiana.
Antonio Ingroia è il pm che aveva chiesto il rinvio a giudizio di Mannino, altri politici e boss sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Nel momento stesso in cui avanzava la richiesta di rinvio a giudizio, dava alle stampe un suo libercolo, «Io so», dedicato al caso. Come si può facilmente capire, esibendo così una certa disinvoltura nello svolgere il mestiere di magistrato, teoricamente rigoroso, attento, riservato, così come ci era stato insegnato dai modelli di vita dei magistrati di un tempo, Ingroia passava da pubblico ministero a romanziere.
Da allora l’opinione pubblica è stata invasa di pubblicazioni, articoli, trasmissioni, puntate su puntate di accuse sconvolgenti, con interrogatori a figure di primo piano delle nostre istituzioni, come ad esempio Ciriaco De Mita, Nicola Mancino e, dulcis in fundo, un memorabile quanto inutile interrogatorio a Giorgio Napolitano, in merito appunto a intercettate ma irrilevanti conversazioni proprio con l’ex presidente del Csm, Mancino.
Insomma, l’imputato è assolto con formula piena ma lo show messo in campo contro la classe politica della prima repubblica attraverso teoremi indimostrati (e, ora è certificato anche da una sentenza, indimostrabili) è stato indubitamente un successo. C’è da dubitare, tuttavia, che anche questo ennesimo esempio dell’andamento del processo mediatico giudiziario con l’emissione anticipata di una condanna da parte di certa stampa, non insegni nulla. Soprattutto a noi giornalisti.
Insomma, l’imputato è assolto con formula piena ma lo show messo in campo contro la classe politica della prima repubblica attraverso teoremi indimostrati
Ieri, con l’assoluzione di Calogero Mannino, il processo cui Ingroia impresse un colpo più duro – lo stesso Ingroia che si candidò alle elezioni politiche del 2013 a capo di una lista di estrema sinistra, tentando e miseramente fallendo una “discesa” nell’agone politico – ha visto una svolta.
Decisiva, sul piano della comunicazione e della tecnica processuale – è stato il suggerimento degli avvocati dell’ex ministro: optare per il giudizio abbreviato. Ciò permette oggi a Mannino di dire: «Volevo il rito abbreviato perché la mia posizione andava distinta dai boss, perché io ho rappresentato la svolta che la Dc ha impresso nella sua azione di contrasto alla mafia». Ed ha consentito anche, all’ex ministro, di ottenere un’autonoma visibilità rispetto a ciò che verrà deciso nel filone principale del processo, che va lentamente avanti, tra allarmi di attentati, polemiche extra giudiziali e chi più ne ha, più ne metta.
Sarebbe bastata un po’ di conoscenza di storia contemporanea, o almeno di cronaca obiettiva, per cogliere che tra il 1992 e il 1994, i governi italiani conducevano la più efficace repressione dell’esercito mafioso mai vista
Sarebbe bastata un po’ di conoscenza di storia contemporanea, o almeno di cronaca obiettiva, per cogliere che tra il 1992 e il 1994, i governi italiani conducevano la più efficace repressione dell’esercito mafioso mai vista. Durante le udienze del processo sono emerse scelte politiche discutibili, come quella decisa dal compianto Guardasigilli, Giovanni Conso, di sospendere il carcere duro a un certo numero di detenuti mafiosi. Scelta sbagliata politicamente ma difficilmente condannabile da un punto di vista penale. Ma questo è il punto. Alcuni nostri processi non servono più ad accertare responsabilità penali degli imputati ma ad imbastire il processo mediatico, in un meccanismo malato nel quale si è disposti a dar voce – lungamente – all’accusa e mai o assai limitatamente alla difesa.
In “soli” tre anni, Calogero Mannino ha dimostrato la sua innocenza. Con una motivazione che fa rabbrividire, se si pensa a quanto si è potuto dire e scrivere: «assolto per non aver commesso il fatto». In un Paese caratterizzato da valanghe di magistrati seri, integerrimi, rigorosi con se stessi prima ancora che con gli indagati o imputati, c’è da chiedersi quali commenti accompagnino oggi questa decisione nei corridoi dei palazzi di giustizia della Penisola.
* giornalista, esperto in litigation pr