Salvini ha rottamato la Lega, i vecchi colonnelli sono all’angolo

Il segretario del Carroccio medita di abbandonare l'obiettivo dell'indipendenza della Padania. Intanto ha fatto il vuoto: i vecchi dirigenti rottamati, i nuovi ancora da crescere. Forse l'unico che gli sopravviverà è Luca Zaia

Oltre Matteo Salvini, Salvini. Domenica scorsa, sul palco di Bologna, il segretario della Lega è riuscito a portare tutto il centrodestra un tempo unito. I giornali lo indicano ormai come l’unico leader dello schieramento. Persino Silvio Berlusconi è stato visto come una comparsa. Al limite, un comprimario sulla via del tramonto. Ma Salvini sta soprattutto rottamando – perché di Berlusconi avrà comunque bisogno per puntellare la sua leadership – tutta la vecchia guardia del partito. E in un’intervista al Corriere della Sera ha detto ciò che fino a qualche tempo fa sarebbe stata un’eresia: il segretario federale della Lega Nord è pronto a valutare il cambiamento dell’articolo numero uno dello Statuto del Movimento, il patto fondativo del Carroccio bossiano. L’indipendenza della Padania, messaggio secessionista non più compatibile con la nuova vocazione nazionalista.

Non è detto che Salvini lo cancellerà. Troverà anche molte resistenze. «Non abbiamo mai parlato – spiega oggi Roberto Maroni – Ho i miei dubbi». Ma intanto se si guarda la fotografia del palco bolognese, si è disintegrata quasi del tutto la tradizionale liturgia padana. La Lega è Salvini, le percentuali a due cifre che le attribuiscono i sondaggi sono soprattutto un voto al leader e alle sue parole d’ordine. Intorno al leader, il vuoto. Perché i vecchi colonnelli sono i meno ascoltati dal segretario, ma i nuovi devono ancora crescere e farsi conoscere. Anche le dichiarazioni e i commenti sui social network dei quadri leghisti ormai si limitano a fotocopiare e moltiplicare quelli del leader. Da questo punto di vista, iI Pd renziano ha fatto scuola anche a destra.

A guardare il palco bolognese, si è disintegrata quasi del tutto la tradizionale liturgia padana. La Lega è Salvini, le percentuali a due cifre che le attribuiscono i sondaggi sono soprattutto un voto al leader e alle sue parole d’ordine. Intorno al segretario, il vuoto. Perché i vecchi colonnelli sono i meno ascoltati, ma i nuovi devono ancora crescere e farsi conoscere

Gli unici che hanno ancora margini di autonomia, nella galassia leghista, sono i due governatori. Ma anche loro ormai si muovono su strade parallele a quelle del leader: Roberto Maroni, in Lombardia, e Luca Zaia, in Veneto. Ha lasciato la scena ormai da tempo il fondatore, Umberto Bossi. Gli scandali giudiziari nel 2012 hanno concluso la sua parabola politica già logorata dagli insuccessi al governo (proprio con Berlusconi) e dai segni della malattia. L’altro giorno diversi giornali raccontavano la presenza del vecchio leader al comizio bolognese. Ai margini del palco, in disparte, come ormai da tempo a Montecitorio, dove un tempo era sempre al centro dell’attenzione. Dal 1987 Bossi, che resta pur sempre presidente del Carroccio, ha un seggio parlamentare. Ma alle prossime Politiche la sua ricandidatura non è scontata. C’è la fila di nuovi salviniani che vorranno essere ricompensati, sognando il ritorno al Governo. E il vecchio Capo, a cui è stato ridotto lo staff al minimo, non è più un totem fra i giovani.

La pattuglia parlamentare leghista, insomma, dovrà riguadagnarsi il posto. Gli attuali deputati e senatori sono stati scelti quando il segretario era Maroni, nel 2013. E nella Lega c’era un altro uomo forte, Flavio Tosi. Anche lui quest’anno è stato rottamato dal giovane leader di via Bellerio. Espulso, perché sospettato di voler scalzare Salvini dalla guida della Lega, forte di un patto a tre sancito proprio con Maroni garante: Salvini si sarebbe dovuto occupare del partito, Tosi sarebbe stato il candidato premier della coalizione in caso di primarie. Divisione dei ruoli superata però dal successo mediatico del segretario. Prima Tosi, che è ancora sindaco di Verona, ha provato a contendere la presidenza del Veneto a Zaia, senza successo. Ora ha fondato un nuovo partito, Fare! Tre deputati e tre senatori che simpatizzano per Renzi ma che, almeno per il momento, non sembrano in grado di lasciare il segno nelle cronache parlamentari.

Bossi in disparte, Tosi espulso, i difficili rapporti con Calderoli, la scomparsa di Cota e Castelli. Gli unici che hanno ancora margini di autonomia sono i due governatori Maroni e Zaia, ma anche loro ormai si muovono su strade parallele a quelle del leader

E chissà se, parlando della vecchia guardia in declino, dovrà farsi da parte anche Roberto Calderoli. Il vicepresidente del Senato è stato più volte ministro, ma soprattutto il responsabile organizzativo della Lega Nord. Era lui ad avere in mano le chiavi del movimento, il rapporto con il territorio, l’organizzazione delle campagne politiche, le trattative romane con gli alleati. Unanimemente riconosciuto tra i massimi esperti di regolamenti parlamentari, Calderoli è stato anche il padre di una delle recenti leggi elettorali: il Porcellum (copyright sempre suo, una volta capito che non funzionava così bene). E questa estate è stato uno dei protagonisti della battaglia sulla riforma costituzionale. I suoi milioni di emendamenti hanno rischiato di bloccare l’iter del provvedimento. Per settimane Calderoli ha conquistato l’attenzione dei giornali. Una strategia mai concordata veramente con Salvini, che non avrebbe affatto gradito l’operazione. Non solo. I bene informati raccontano che tra i due le distanze siano ormai evidenti anche sul piano personale, acuite, tra l’altro, anche dalla difficile gestione del partito in Piemonte, dove la moglie di Calderoli, Gianna Gancia, punta alla segreteria regionale al posto di un fedelissimo del leader, il suo vice Riccardo Molinari.

Sempre a proposito di Piemonte, è sparito dai radar anche l’ex governatore Roberto Cota, costretto alle dimissioni due anni fa per lo scandalo dei rimborsi facili. Cota vorrebbe essere riconfermato alla segreteria del Piemonte, e passa lungo tempo in via Bellerio. Ma anche per lui sembra non esserci più spazio nelle foto di gruppo. Come per l’ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli: non ricandidato nel 2013, sempre fedele di Bossi, il suo nome riemerge spesso quando si tratta di qualche nomina di peso in società partecipate. Ma in realtà è tornato a vita privata.

La nuova classe leghista: Alessandro Morelli, direttore di Radio Padania e capogruppo al Comune di Milano. Stefano Bolognini, ex assessore provinciale a Milano. E poi il piemontese Molinari e il ligure Rixi. Giovane padano è Gianmarco Centinaio, capogruppo al Senato, di Pavia

Con chi si confronta, dunque, Salvini, il mattatore del palco di Bologna? Come detto, non può fare a meno dei suoi due governatori. Maroni perché è quello che lo ha sdoganato sulla scena politica. Perché è il presidente della sua Lombardia, la cassaforte (anche politica) della Lega. E perché ha l’esperienza politica nazionale che a lui manca. Zaia perché è la Lega di Governo per antonomasia: in Veneto è stato riconfermato con una valanga di voti anche grazie alla capacità di porsi come amministratore delegato del suo territorio, notoriamente votato all’indipendenza. Ma non è che con i due governatori Salvini vada sempre d’accordo. Con Maroni c’è spesso freddezza, perché l’ex ministro dell’Interno è uno che alza la voce ma nelle stanze del potere sa anche mediare e trovare una soluzione. E non ama essere messo all’angolo. Se ci sarà da proporre un candidato premier – se il suo nome fosse ritenuto troppo ingombrante – Salvini non potrà che puntare su Zaia. Leghista che preferirebbe a Maroni, anche solo per una questione generazionale. Scenari per ora imponderabili.

Sulle faccende grosse, Salvini si serve ancora di Giancarlo Giorgetti, bocconiano, l’uomo ombra della Lega che da metà anni Novanta ha sempre intessuto i rapporti con Giulio Tremonti, il Quirinale, il mondo delle banche. Ma anche a Giorgetti, dicono, molto spesso sfugge di mano il controllo del giovane segretario. Che alla fine fa sempre di testa sua e si confida con una cerchia ristretta di fedelissimi che non hanno nulla a che fare con la vecchia guardia. Non sono ancora noti come Calderoli o Castelli un tempo. Ma inizia a mandarli in tv al posto suo. Sono i giovani padani con cui è cresciuto e su cui, c’è da scommettere, Salvini investirà politicamente già a partire dalle Comunali. Alessandro Morelli, direttore di Radio Padania e capogruppo al Comune di Milano. Stefano Bolognini, ex assessore provinciale a Milano. E poi i suoi vice, Molinari (Piemonte) ed Edoardo Rixi (Liguria). Giovane padano e’ Gianmarco Centinaio, capogruppo al Senato, di Pavia. Meno salviniano è Massimiliano Fedriga, capogruppo alla Camera, friulano, che però in tv ci va spesso a sostenere una delle battaglie simbolo del nuovo corso leghista, la cancellazione della legge Fornero. Alla fine, forse, l’unico della vecchia guardia che sopravviverà alla rottamazione leghista è Mario Borghezio: l’europarlamentare torinese si è guadagnato sul campo la fiducia di Salvini conquistando un seggio nella Circoscrizione Centro Italia. E tessendo i rapporti con gli ambienti di destra, a partire dal Front National di Marine Le Pen.

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